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Il "Glossario delle disuguaglianze sociali" mira a realizzare una raccolta di voci specificamente dedicate alla problematica delle disuguaglianze economiche e sociali, nella prospettiva di uno strumento di conoscenza e di informazione di base, durevole e continuativo. Le voci presenti sul portale - curate da professori, ricercatori ed esperti sui temi di interesse del Glossario - rappresentano il solido inizio di un progetto sempre attivo e in continua espansione. Pertanto, se pensi che sia ancora assente nel Glossario qualche argomento di rilevo nello studio delle disuguaglianze sociali, non esitare a segnalarcelo (glossario@fondazionegorrieri.it).

Sistemi pensionistici (tipologie)

Scritto da: Michele Raitano

 

La formula retributiva

Nello schema retributivo, in vigore in Italia fino al 1995 e poi (con alcune modifiche) pro rata per chi nel 1995 aveva accumulato meno di 18 anni di contribuzione, la pensione viene calcolata come:

P=c*AC*E(w)

dove c è un coefficiente di rendimento (pari generalmente al 2%), AC l’anzianità contributiva (che ai fini del calcolo non può superare i 40 anni) ed E(w) la retribuzione pensionabile, data (fino al 1992) dalla media delle ultime 5 ultime annualità di salario per i dipendenti privati, dall’ultima mensilità per i pubblici. Di conseguenza, con 40 anni di contribuzione il tasso di sostituzione lordo (ovvero il rapporto fra la prima annualità di pensione e l’ultima di retribuzione) è all’incirca l’80% dell’ultima retribuzione ed è indipendente sia dall’età di pensionamento (che non compare nella formula di calcolo), sia dall’aliquota contributiva cui si è soggetti.

Nel retributivo, il rendimento effettivo sui contributi individuali ottenuto da ogni individuo, a parità di versamenti effettuati, differisce ampiamente, in ragione della divergenza nei parametri della formula di calcolo applicati nelle molteplici gestioni a cui appartenevano i diversi gruppi di lavoratori (oltre che per fasce di reddito), della differenza di aliquote versate (ne risultano, ad esempio, avvantaggiati i lavoratori autonomi, che ricevono una pensione legata alle ultime retribuzioni pur essendo soggetti a un’aliquota contributiva di molto inferiore di quella a carico dei dipendenti) e della dinamica di carriera, che avvantaggia, in termini di rendimento sui contributi versati, chi realizza rilevanti crescite salariali al termine della carriera, che, fino al 1992, era l’unico periodo preso a riferimento per il calcolo della retribuzione pensionabile (l’esempio estremo era rappresentato dai militari che ricevevano promozioni al momento del pensionamento). Ricevere pensioni slegate dal totale dei contributi pagati, ma dipendenti dall'anzianità di versamento, comporta inoltre (con l'eccezione degli ultimi anni di carriera, quelli alle cui retribuzioni si legava la pensione) un incentivo a evadere i contributi in eccesso rispetto al minimale stabilito per legge.

La formula retributiva italiana – che non prevede nessuna compensazione attuariale dell’importo della pensione (e, quindi, della ricchezza pensionistica totale) in funzione dell’età di pensionamento – comporta inoltre l’esistenza di un’elevata tassa implicita al proseguimento dell’attività lavorativa e, di conseguenza, genera incentivi monetari a uscire dal mercato del lavoro il prima possibile (o a continuare l’attività nel settore informale).

 

La formula contributiva

Nel contributivo l’entità della prestazione è funzione unicamente di quanto versato nel corso della vita lavorativa. Sui contributi individuali, accumulati in conti nozionali (essendo il sistema a ripartizione, i versamenti non sono investiti sul mercato), viene accreditato un tasso di rendimento nozionale (indipendente dal saggio di mercato) legato al tasso di crescita quinquennale del PIL nominale e, al momento del pensionamento, il montante (figurativamente) accumulato viene trasformato in rendita vitalizia sulla base di coefficienti di trasformazione che tengono conto dell’aspettativa di vita media della popolazione italiana.

La pensione contributiva è dunque calcolata come:

P = M*CT

dove M è il montante dei contributi accumulati durante l’intera vita lavorativa – che dipende da salari ricevuti e aliquote contributive di versamento lungo l’intera vita lavorativa e dal tasso di rendimento nozionale sui contributi – e CT è il coefficiente di trasformazione, necessario per trasformare il capitale accumulato in una pensione mensile. A differenza che nel retributivo, attraverso il meccanismo dei coefficienti (crescenti con l'età) l'entità della pensione contributiva è legata, in misura attuarialmente equa, all'età in cui ci si ritira.

Nel contributivo differenze “esplicite” di rendimenti, a parità di importo versato e età di ritiro, sono assenti “per definizione”, dato che la pensione dipende dall'ammontare totale dei versamenti e il tasso di rendimento sui contributi versati è uguale per tutti i partecipanti al sistema.

Dal punto di vista individuale, a parità di andamento aggregato di economia e demografia (da cui dipendono tasso di rendimento e coefficienti di trasformazione), nel contributivo la prestazione dipende da quanto si contribuisce, quindi dal successo della carriera (dalla sua continuità e durata, dal livello salariale e dall’appartenenza a categorie che pagano una maggiore aliquota). Basandosi su criteri di equità attuariale fra versamenti e prestazioni, e non prevedendo espliciti elementi redistributivi inter e intra-generazionali, lo schema contributivo costituisce essenzialmente uno specchio di quanto accade all'individuo sul mercato del lavoro e risulta scevro da elementi redistributivi espliciti. Tuttavia, flussi redistributivi impliciti sono connessi alla differente mortalità dei sottogruppi della popolazione e sono legati al meccanismo di calcolo dei coefficienti di trasformazione, basati sull’aspettativa di vita media, indifferenziata per sesso, della popolazione italiana. Per tale via, il sistema contributivo redistribuisce implicitamente a favore di chi vive in media di più. Tenuto conto che la letteratura epidemiologica è concorde nell’evidenziare come la longevità sia minore per chi proviene da uno status socioeconomico più svantaggiato, il contributivo rischia determinare flussi redistributivi regressivi, dai più poveri a vantaggio dei più ricchi.

Nel contributivo i coefficienti di trasformazione fanno dipendere la pensione dall’età in cui ci si ritira, per cui, a parità di condizioni, chi si ritira dopo (ricevendo in media la rendita per un numero minore di anni) riceverà una prestazione proporzionalmente più elevata. Pertanto, il sistema è neutrale rispetto alle scelte di pensionamento degli individui e non contiene incentivi al ritiro anticipato (la “tassa implicita” alla prosecuzione dell’attività è pari a zero): mediante l'applicazione dei coefficienti di trasformazione lavorare un anno di più comporta infatti un incremento della ricchezza pensionistica attesa esattamente tale da compensare (in termini attuariali) l'entità della pensione a cui si rinuncia posponendo il ritiro.

I coefficienti di trasformazione sono legati all’aspettativa di vita attesa al pensionamento. Per neutralizzare la spesa pubblica dal “rischio demografico” (ovvero da un incremento della longevità media), questi coefficienti sono rivisti per legge ogni 2 anni: se l’aspettativa di vita cresce i coefficienti si riducono e, quindi, le pensioni individuali, essendo erogate in media per un maggior numero di anni, sono riviste al ribasso.

L'applicazione del contributivo sta entrando in vigore in modo molto graduale dato che nel 1995 si decise di mantenere in vigore il retributivo per coloro che avevano maturato almeno 18 anni di contribuzione al momento di introduzione della riforma e di applicare il metodo contributivo pro rata (solo per gli anni di versamento successivi al 1995) per coloro che avevano un'anzianità contributiva inferiore a tale limite; unicamente per chi è entrato nel mercato del lavoro dopo il 1996, la prestazione previdenziale viene quindi calcolata interamente in base al contributivo. In seguito alla riforma del 2011, un’ulteriore forma di pro rata si applica per le annualità lavorate dal 2012 in poi da chi nel 1995 aveva raggiunto i 18 anni di contribuzione.

 

La sostenibilità di lungo periodo della spesa per pensioni nel contributivo

Oltre a essere in media neutrale rispetto alle scelte di pensionamento, dal punto di vista macroeconomico l’applicazione del contributivo scinde il legame fra spesa previdenziale e dinamica demografica. La revisione periodica dei coefficienti di trasformazione, infatti, fa sì che un incremento della speranza di vita media (quindi del numero di anni in cui, in media, si riceverà la pensione) sia compensato da una riduzione dell’entità unitaria della prestazione, senza causare effetti sulla spesa aggregata. Il pagamento sui contributi versati di un tasso di rendimento allineato alla crescita del PIL garantisce inoltre l’equilibrio finanziario di un sistema pubblico a ripartizione.

Una valutazione delle caratteristiche di tale sistema induce quindi a ritenere che la sostenibilità di lungo periodo della spesa previdenziale italiana sia garantita “per definizione”, come confermano le proiezioni a lungo termine effettuate periodicamente dalla Commissione Europea, che evidenziano come la graduale entrata in vigore del contributivo contribuirà a stabilizzare la quota di spesa pubblica destinata a pensioni e a neutralizzare il suo andamento rispetto alla variabile demografica.

Dal punto di vista aggregato i meccanismi del contributivo agiscono quindi in modo da stabilizzare la quota di PIL da destinare al pagamento delle pensioni. Una volta entrato a regime lo schema contributivo, in termini intertemporali il bilancio previdenziale sarà sempre tendenzialmente in equilibrio e, salvo motivi indipendenti dal sistema pensionistico (ad esempio, gravissime crisi economiche o demografiche che riducano consistentemente le fonti di finanziamento correnti nel sistema a ripartizione), ci saranno sempre le risorse per pagare le pensioni. In altri termini, le dimensioni della torta a disposizione dei pensionati sono fisse: un incremento dei beneficiari (causato ad esempio da una caduta del tasso di mortalità) comporterà unicamente una riduzione delle dimensioni delle fette. L’attenzione va, dunque, spostata dal piano della sostenibilità finanziaria a quello dell’adeguatezza delle prestazioni erogate, ovvero al tenore di vita di cui potranno godere i futuri pensionati.

 

L’adeguatezza delle pensioni contributive

Il sistema contributivo non assicura i lavoratori contro shocks aggregati che possano colpire il sistema economico. Nel contributivo infatti, come detto, la quota della spesa sul PIL è invariante al mutare delle variabili macroeconomiche e demografiche; di conseguenza, i meccanismi del contributivo riversano sulle prestazioni pagate (quindi sugli individui) le variazioni di tali grandezze aggregate.

A parità di crescita del PIL e invecchiamento demografico, la prestazione di ogni individuo è il riflesso della propria esperienza lavorativa. Vite lavorative meno fortunate – cioè con frequenti periodi di non lavoro, bassi salari e aliquote ridotte – si rifletteranno in una pensione di importo proporzionalmente minore. In aggiunta, al di là dell’assegno sociale, che viene concesso a tutti gli anziani privi di altri mezzi (anche a chi non ha mai lavorato), nel contributivo non esiste l’integrazione al minimo, che, nel retributivo e nel pro rata, costituisce un pavimento che impedisce alle prestazioni pensionistiche di risultare inferiore ad un livello prestabilito.

Da più parti negli ultimi anni, è emersa apprensione sull’adeguatezza delle prestazioni erogabili dal sistema contributivo, in considerazione dell’aumento atteso dell’aspettativa di vita (e della conseguente riduzione dei coefficienti di trasformazione) e soprattutto nel contesto attuale di un sistema economico a bassa crescita e con un mercato del lavoro incapace di garantire a tutti salari elevati e carriere continue.

I rischi di pensioni basse non dipendono dal contributivo in sé, ma dalla coesistenza delle regole attuariali con bassi tassi di crescita del PIL e un mercato del lavoro incapace di garantire a molti lavoratori carriere soddisfacenti. L’adeguamento automatico dell’età di ritiro e i nuovi vincoli introdotti dalla “riforma Fornero” pensionabile – le prime coorti che andranno in pensione interamente col contributivo non dovrebbero uscire (intorno al 2040) prima dei 69 anni d’età o con meno di 44-45 anni di contribuzione – potrebbero migliorare sensibilmente l’adeguatezza delle future pensioni contributive per effetto dei più elevati coefficienti di trasformazione da applicare e dell’eventuale maggiore durata della vita lavorativa, che comporterebbe una più elevata accumulazione contributiva. Ma, affinché tali previsioni ottimistiche si realizzino, bisogna assumere che il sistema produttivo italiano sia in grado di garantire un’adeguata domanda rivolta a una forza lavoro sempre più anziana. In altri termini, l’innalzamento dell’età pensionabile migliora “per definizione” l’adeguatezza delle prestazioni contributive per gli individui in grado di lavorare a lungo; ma la domanda principale diventa relativa alla possibilità effettiva per i lavoratori più vulnerabili di estendere l’attività fino a quasi 70 anni.

A questo proposito, alcune simulazioni rilevano che con carriere “piene” e lunghe (circa 40 anni di contributi) il rapporto fra pensione e ultima retribuzione sarebbe del tutto simile (attorno all’80% netto), se non superiore, a quello dello schema retributivo, dove però prestazioni di simile importo erano pagate a età anagrafiche ben inferiori. Chi dovesse trascorrere una vita lavorativa stabile e remunerata decentemente riceverebbe, dunque, una prestazione del tutto adeguata al tenore di vita precedente al pensionamento. Tuttavia, nonostante l’incremento dell’età pensionabile, un rischio di inadeguatezza della pensione futura esiste, e grave, per chi dovesse avere una carriera svantaggiata, soprattutto in termini di bassi salari e frequenti interruzioni nella contribuzione. Al momento non si conosce, ovviamente, quanti futuri pensionati saranno in queste condizioni ma, in base alle evidenze empiriche disponibili, se nei prossimi anni il mercato del lavoro italiano non dovesse registrare significative modifiche in senso migliorativo, una quota non irrilevante di chi ha iniziato a lavorare dopo il 1995 potrebbe ritrovarsi al pensionamento con un limitato montante contributivo.

 

Suggerimenti di lettura

  • Gronchi, S. (1995), I rendimenti impliciti della previdenza obbligatoria, Economia Italiana, n. 1.
  • Holzmann R., Palmer E., a cura di (2006), Pension Reform Issues and Prospects for Non-Financial Defined Contribution (NDC) Schemes, Washington, The World Bank.
  • Raitano M. (2012), “Regole pensionistiche, incentivi al ritiro e occupazione degli anziani”, in T. Treu (a cura di), L’importanza di essere vecchi. Politiche attive per la terza età, Il Mulino, Bologna.
  • Jessoula M., Raitano M. (2020), “Pensioni e disuguaglianze: una sfida complessa, l’equità necessaria”, Politiche Sociali/Social Policies, vol. 7, n. 1.
  • Leombruni, R., A. d’Errico, M. Stroscia, N. Zengarini e G. Costa (2015), “Non tutti uguali al pensionamento: variazione nell’aspettativa di vita e implicazioni per le politiche previdenziali”, Politiche Sociali/Social Policies, 3, pp. 461-479.
  • Raitano M. (2019), “Storie lavorative e pensioni attese nel contributivo in Italia: la necessità di una pensione contributiva di garanzia”, La Rivista delle Politiche Sociali, 3.
Michele Raitano
Michele Raitano è Professore Associato di Politica Economica nel Dipartimento di Economia e Diritto della Sapienza, Università di Roma e membro della Redazione del “Menabò di Etica e Economia. Ha recentemente pubblicato, con Maurizio Franzini e Elena Granaglia, "Dobbiamo preoccuparci dei ricchi? Le disuguaglianze estreme nel capitalismo contemporaneo", Il Mulino, 2014.

Progetto realizzato da

Fondazione Ermanno Gorrieri per gli studi sociali

Con il contributo di

Fondazione Cassa di Risparmio di Modena