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Sistema pensionistico italiano

Scritto da: Michele Raitano

 

Premessa

Il sistema previdenziale italiano obbligatorio è di tipo pubblico – i fondi pensione privati svolgono un ruolo integrativo e volontario della copertura pubblica –, è finanziato a ripartizione e le pensioni sono calcolate in base ad una formula che, da retributiva, sta gradualmente passando al metodo contributivo. Il pensionamento è previsto in base a due diverse modalità, per vecchiaia (al raggiungimento di determinate età anagrafiche) e anzianità (in base a requisiti relativi anche all’anzianità contributiva pregressa; dopo la riforma del 2011 si parla di pensionamento “anticipato” anziché per anzianità).

Dall’inizio degli anni ‘90 in Italia il sistema previdenziale pubblico è stato oggetto di numerosi interventi di riforma che hanno riguardato primariamente l’innalzamento dell’età pensionabile e dei requisiti di accesso alle pensioni di anzianità e la modifica – da retributiva a contributiva – della regola di calcolo delle prestazioni. Si è inoltre introdotta una nuova cornice normativa dei fondi pensione privati tesa a incentivare i lavoratori a versarvi contributi integrativi per accrescere la pensione futura complessiva. La graduale entrata in vigore delle modifiche della regola di calcolo – il contributivo si applica interamente solo alle coorti entrate nel mercato del lavoro dal 1996 – comporta l’attuale coesistenza di più regimi previdenziali, caratterizzati da differente generosità e da diverse regole, logiche e, soprattutto, convenienze al posponimento del pensionamento.

Le riforme del sistema pubblico sono state motivate, principalmente, dalla necessità di porre un freno alla crescita attesa della spesa pensionistica, oltre che di correggere alcune iniquità e distorsioni. Prima delle riforme, molti studiosi imputavano al sistema pensionistico pubblico italiano tre principali difetti. In primo luogo, l’insostenibilità economica e finanziaria della spesa nel medio-lungo periodo, a causa della generosità del sistema (in termini di requisiti di accesso al pensionamento e livello delle prestazioni) e dell’intenso processo d’invecchiamento della popolazione. Secondo, la presenza di molteplici iniquità distributive – spesso di segno regressivo, cioè a vantaggio delle categorie più ricche – legate alle differenze nelle formule retributive applicate nelle diverse gestioni previdenziali e al fatto che gli importi pensionistici dipendevano dalla media delle ultime annualità/mensilità di salario, così favorendo, in termini di tassi di rendimento sui contributi versati, coloro che andavano in pensione a età più basse e/o realizzavano rilevanti crescite salariali al termine della carriera. Accanto a questi, erano particolarmente avvantaggiati gli autonomi, che ricevevano una pensione calcolata col metodo retributivo pur essendo soggetti a un’aliquota contributiva ben inferiore a quella applicata ai lavoratori dipendenti. In terzo luogo, sussistevano forti incentivi al pensionamento anticipato: l’assenza di un legame attuariale fra contributi e prestazioni nella formula retributiva, accompagnata dalla possibilità di ritirarsi in base a un requisito di anzianità senza che l’entità della prestazione venisse a dipendere dall’età di pensionamento, comportava un’elevata tassa implicita sul proseguimento dell’attività lavorativa, incentivando i lavoratori a ritirarsi non appena avessero raggiunto i requisiti per la pensione di anzianità.

 

I principali contenuti delle riforme

Dall’inizio degli anni ‘90 in Italia si registra un continuo dibattito riguardo all’organizzazione del sistema previdenziale e sono state introdotte numerose modifiche normative, le cui principali sono contenute nelle cosiddette riforme “Amato” del 1992, “Dini” del 1995, “Maroni” del 2004, nel “Protocollo sul Welfare” del 2007, nella riforma “Fornero” di dicembre 2011 e in alcuni interventi correttivi degli anni più recenti.

Fino al 1992, ci si poteva ritirare per vecchiaia (con almeno 15 anni di contribuzione) al compimento dei 60 anni se uomini o dei 55 se donne, o per anzianità quando, indipendentemente dall’età anagrafica, si raggiungevano i 35 anni di anzianità contributiva (ma alcuni regimi speciali, soprattutto nel pubblico impiego, offrivano la possibilità di pensionarsi ben prima dei 35 anni). Inoltre, fino a tale data il sistema pubblico a ripartizione erogava prestazioni calcolate in base a una regola a beneficio definito (cosiddetta “retributiva”) che legava la pensione ai salari conseguiti al termine della carriera e alla durata della carriera (l’anzianità contributiva).

Il principale obiettivo delle riforme è consistito nel contenere la dinamica di crescita della spesa; in aggiunta, soprattutto con la riforma del 1995, una particolare attenzione è stata dedicata alla riduzione delle iniquità distributive e dei disincentivi alla prosecuzione dell’attività, prima ricordati.

Le principali misure contenute nella riforma del 1992 (Legge n. 503) sono state le seguenti:

  • variazione del meccanismo di indicizzazione delle prestazioni in essere: da un’indicizzazione ai salari nominali si è passati a una, meno conveniente, basata sull’andamento dei prezzi al consumo;
  • estensione all’intera vita lavorativa del periodo di riferimento per il calcolo della retribuzione pensionabile; tale estensione fu però introdotta in modo molto graduale dato che si stabilì che per chi al 1992 aveva già raggiunto i 15 anni di contribuzione la regola sarebbe rimasta pressoché immutata, mentre per chi non aveva ancora tale anzianità ci sarebbe stato un incremento graduale del periodo di riferimento;
  • armonizzazione delle regole fra le diverse categorie di lavoratori, in particolare fra pubblici e privati (soprattutto nei requisiti contributivi per l’accesso al pensionamento per anzianità);
  • introduzione graduale (poi velocizzata con l’intervento del 1997) di un limite minimo d’età pari a 57 anni per chi intendesse accedere al pensionamento d’anzianità;
  • incremento graduale dell’età per il pensionamento di vecchiaia fino a 65 e 60 anni (con 20 anni di contribuzione), rispettivamente, per uomini e donne.

La riforma del 1995 (Legge n. 335) ha previsto una modifica strutturale del metodo di calcolo delle prestazioni pubbliche: al posto della formula retributiva si è introdotto il criterio “contributivo”, nel quale l’entità della prestazione diviene funzione di quanto versato nel corso della vita lavorativa e dell’età in cui ci si ritira. Il contributivo si applica interamente a chi è entrato in attività dal 1996 in poi e pro rata (per il periodo post 1995) per chi già lavorava in tale anno, mentre il retributivo rimase in vigore per chi nel 1995 aveva almeno 18 anni di contribuzione. Abolendo la distinzione fra pensioni di anzianità e vecchiaia, coerentemente con la logica di uno schema che prevede una pensione commisurata in al numero di anni in cui si prevede che la si riceverà, la riforma del 1995 aveva reso flessibile l’età pensionabile fra i 57 e i 65 anni in presenza di 5 anni di anzianità (il pensionamento prima dei 65 anni era possibile se la pensione era pari ad almeno 1,2 volte l’assegno sociale).

Ulteriori interventi furono introdotti fra il 1997 e il 2010, soprattutto al fine di contenere la dinamica della spesa pubblica nel breve periodo mediante un innalzamento dei requisiti di accesso al pensionamento di anzianità. Nel 1997 fu introdotta la possibilità di ritirarsi, indipendentemente dall’età anagrafica, in presenza di almeno 40 anni di contribuzione, mentre nel 2004 si stabilì, a decorrere dal 2008, un innalzamento da 57 ai 60 anni del limite anagrafico per potersi ritirare una volta raggiunti i 35 anni di anzianità (il cosiddetto “scalone”). Tale legge stabilì inoltre che i requisiti per il pensionamento di anzianità valessero anche per gli iscritti al sistema contributivo, cancellando la flessibilità dell’età pensionabile fra i 57 e i 65 anni introdotta dalla riforma del 1995.

Con il “Protocollo sul Welfare” del 2007 (Legge n. 247) si abrogò lo “scalone” e si stabilirono nuovi requisiti di accesso al pensionamento d’anzianità basati sul meccanismo delle “quote”, ovvero sul raggiungimento di una particolare combinazione fra età anagrafica e anzianità contributiva: in base a tale meccanismo nel 2011 ci si poteva ritirare a “quota 96” (61 anni d’età e 35 di contribuzione o “60+36”; per gli autonomi la quota era di un anno superiore).

Misure introdotte nel 2009 e rafforzate nel 2011 hanno poi stabilito il principio dell’adeguamento automatico dei requisiti di età anagrafica e di anzianità per accedere al pensionamento; tale adeguamento avviene attualmente con cadenza biennale, sulla base dell’incremento dell’aspettativa di vita a 65 anni misurata dall’ISTAT. Come conseguenza, ogni aumento dell’aspettativa di vita si rispecchierà in un uguale aumento dei requisiti di accesso al pensionamento.

La riforma introdotta nel dicembre 2011 (Legge n. 214) ha rivisto nuovamente, e in modo sostanziale, le regole di accesso al pensionamento e la regola di calcolo per i lavoratori appartenenti al retributivo. Per questi ultimi, introducendo un’ulteriore forma di pro rata, si è stabilito che le annualità a partire dal 2012 vengano computate in base al metodo contributivo. Dal punto di vista delle età di ritiro gli interventi sono stati molto consistenti.

La riforma stabilì che dal 2012 ci si poteva ritirare per vecchiaia, in presenza di 20 anni di anzianità, a 66 anni se uomini (o donne nel pubblico impiego) a 62 se donne nel settore privato – ma con un percorso di omogeneizzazione graduale all’età maschile, fino a pareggiarla nel 2018 –, mentre il “pensionamento anticipato” era possibile solo in presenza di 41 anni di anzianità se donne o 42 se uomini. La riforma confermò il legame fra i requisiti per il pensionamento e la vita attesa: nel 2020 ci si ritira a 67 anni o con 42 anni e 10 mesi di anzianità (1 in meno per le donne), nel 2040 l’età di vecchiaia dovrebbe essere di circa 69 anni e serviranno 44/45 anni (se donna o uomo) per ricevere la pensione anticipata.

Per quanto riguarda gli individui interamente appartenenti allo schema contributivo la riforma ha reintrodotto forme di flessibilità dell’età di uscita, ma sulla base di requisiti molto più stringenti di quelli originariamente previsti dalla “Dini”. Si è infatti introdotta la possibilità di ritirarsi fino a un massimo di 3 anni prima dell’età di vecchiaia in presenza di almeno 20 anni di contribuzione e una pensione di importo non inferiore a 2,8 volte l’assegno sociale. Si è al contempo stabilito che all’età di vecchiaia la pensione verrà erogata solo in presenza di almeno 20 anni di contribuzione e di una pensione di importo non inferiore a 1,5 volte l’assegno sociale. In mancanza di tali requisiti (ma in presenza di almeno 5 anni di anzianità) la pensione verrà comunque erogata 4 anni dopo il raggiungimento dell’età di vecchiaia (a partire dall’età per la vecchiaia, laddove soddisfacesse i requisiti di reddito, l’individuo può comunque ricevere l’assegno sociale, misura assistenziale erogata agli anziani indigenti).

Per far fronte ai cospicui innalzamenti dei requisiti di accesso al pensionamento stabiliti dalla riforma del 2011, che potevano penalizzare in particolare i lavoratori più svantaggiati, la Legge di Stabilità per il 2017 ha introdotto alcune norme per favorire il pensionamento di alcune categorie di lavoratori e lavoratrici ad età inferiori a quelle stabilite dalla riforma del 2011. Da una parte, si è stabilito che nel caso delle cosiddette “carriere precoci” (quelle con almeno 12 mesi di lavoro anche non continuativo prima del compimento del diciannovesimo anno d’età) si consenta l’accesso alla pensione con 41 anni di contributi, indipendentemente dall’età, se si rispettano alcune condizioni relative all’attività lavorativa. Dall’altra, in via sperimentale, si è offerto a chi ha compiuto 63 anni di età (da accrescersi in linea con l’aumento dell’aspettativa di vita) ed ha almeno 20 anni di anzianità la possibilità di ritirarsi prima del raggiungimento dell’età pensionabile usufruendo di un nuovo strumento finanziario, denominato Anticipo Pensionistico (APE). L’APE si concretizza in due strumenti distinti: l’APE volontaria e l’APE sociale (o agevolata).

L’APE volontaria si basa su un prestito erogato da banche e assicurazioni, ma richiesto presso l’Inps. La restituzione del prestito avviene a partire della data di pensionamento (cioè dal raggiungimento dell’età di vecchiaia), con rate di ammortamento costanti per una durata di 20 anni, comprensive del costo per gli interessi bancari e degli oneri relativi alla polizza assicurativa per premorienza. Pertanto, l’accesso all’APE volontaria ha un costo per il lavoratore, connesso alle rate di rimborso del prestito, agli interessi bancari e agli oneri assicurativi. L’APE sociale consiste, invece, in un sussidio erogato dallo Stato e rivolto ad alcune categorie che necessitano di particolare tutela in virtù delle loro difficoltà a rimanere occupabili fino ad età avanzate, sulla base di requisiti quali: i) stato di disoccupazione e assenza di reddito; ii) gravosità del lavoro, che, in caso di permanenza in attività ad età elevata aumenta il rischio di infortunio o di malattia professionale; iii) condizioni di salute; iv) carichi di lavoro di cura per parenti di primo grado conviventi con disabilità grave. Mentre con l’APE sociale, trattandosi di un sussidio pubblico rivolto a categorie particolarmente bisognose, non è prevista una riduzione dell’importo della pensione una volta che questa verrà erogata, chi accede al pensionamento anticipato mediante l’APE volontaria subisce una riduzione della pensione, variabile a seconda della durata dell’anticipo.

Infine, la Legge di Stabilità per il 2018 è intervenuta per ampliare lievemente le categorie di individui che possono accedere all’APE sociale e per escludere tali categorie dall’adeguamento automatico dell’età pensionabile programmato per il 2019 (è però previsto che dal 2021 l’adeguamento ripartirà anche per le categorie esentate), mentre la Legge di Stabilità per il 2019 ha introdotto in via sperimentale per 3 anni la cosiddetta “Quota 100”, ovvero la possibilità di pensionarsi con 38 anni di contributi ed almeno 62 anni di età anagrafica, in anticipo rispetto alla normativa vigente.

 

Suggerimenti di lettura

  • Fornero E. e O. Castellino (2001), La riforma del sistema previdenziale italiano, Bologna, Il Mulino.
  • Franco D. e M. Marè (2002), “Le pensioni: l’economia e la politica delle riforme”, Rivista di politica economica, 92, 7-8.
  • Jessoula M. (2009), La politica pensionistica, Bologna, Il Mulino.
  • Jessoula M. e M. Raitano (2015), “La Riforma Dini vent’anni dopo: promesse, miti, prospettive di policy. Un’introduzione”, Politiche Sociali/Social Policies, 2(3).
  • Pizzuti F.R. (2019), Rapporto sullo Stato Sociale 2019, Roma, Sapienza University Press.
  • Raitano M. (2018), “La flessibilità dell’età pensionabile: le novità della Legge di Bilancio per il 2018”, Politiche Sociali/Social Policies, 5(1).
Michele Raitano
Michele Raitano è Professore Associato di Politica Economica nel Dipartimento di Economia e Diritto della Sapienza, Università di Roma e membro della Redazione del “Menabò di Etica e Economia. Ha recentemente pubblicato, con Maurizio Franzini e Elena Granaglia, "Dobbiamo preoccuparci dei ricchi? Le disuguaglianze estreme nel capitalismo contemporaneo", Il Mulino, 2014.

Progetto realizzato da

Fondazione Ermanno Gorrieri per gli studi sociali

Con il contributo di

Fondazione Cassa di Risparmio di Modena