Teoria della decrescita
Definizione
Il termine “decrescita” è stato introdotto solo di recente all’interno del dibattito economico, politico e sociale, nonostante già dalla fine degli anni Sessanta teorici come Ivan Illich, Andrè Gorz, François Pertant, Gregory Bateson e Cornelius Castoriadis analizzassero in chiave critica il modello di sviluppo occidentale basato sul presupposto della crescita infinita. Il vocabolo “decrescita” appare per la prima volta nel 1979 quando Nicholas Georgescu-Roegen, nato in Romania e docente prima in statistica e poi in economia in Francia e negli Stati Uniti, pubblica “Demain la décroissance: entropie, écologie, économie” dove presenta la decrescita come una conseguenza inevitabile dei limiti imposti dalle leggi di natura.
Oggi alla teoria della decrescita fanno riferimento una pluralità di approcci teorici, politici e di azione e impegno sociale che condividono la necessità di un ripensamento complessivo della società al fine di garantire benessere e giustizia sociale in base a un nuovo modo di concepire il rapporto tra stili di vita, risorse naturali e processi economici. In estrema sintesi, la teoria della decrescita è caratterizzata dalla prospettiva di uscire dalle logiche produttiviste e consumistiche tipiche delle società contemporanee per ricostruire una corretta relazione tra l’uomo e l’ambiente, migliorando la qualità della vita di ogni individuo attraverso una vera e propria “rivoluzione culturale” necessaria a ricostruire una nuova gerarchia di valori.
Cosa non propone la decrescita
Prima di ulteriori approfondimenti, a scanso di equivoci è bene esplicitare cosa non è e cosa non propone la decrescita: il progetto della decrescita non deve infatti essere confuso con il fenomeno concreto della crescita negativa, ovvero con una società in costante recessione che non riesce a realizzare i propri obiettivi di sviluppo; sotto questo punto di vista, come nota Latouche (2011), uno dei principali interpreti della decrescita, “non c’è niente di peggio di una società della crescita senza crescita” perché in questa situazione diviene irrealizzabile ogni politica di promozione sociale. La crisi del welfare e l’incapacità di finanziare molti interventi sociali sono oggi riconducibili proprio all’andamento economico negativo o stazionario che non permette di dedicare risorse, in particolare quelle pubbliche, alla lotta alle disuguaglianze.
Anche se alcuni teorici della decrescita vedono nella crisi economica un passeggio drammatico ma ineludibile per ripensare la società (Cochet, 2013), confondere la decrescita con la crisi economica è uno dei malintesi più comuni a cui ricorrono i suoi detrattori: è evidente che nessuno dei sostenitori della decrescita auspica una condizione di crisi economica permanente, così come risulta ben lontano da questo approccio l’idea che per stare meglio si debba tornare indietro; è analogamente mistificante pensare alla decrescita come a un movimento neo-luddista, nemico del futuro e delle nuove tecnologie.
In effetti dal punto di vista strettamente economico sarebbe più coerente parlare di a-crescita invece che di de-crescita per ribadire che dietro a questo termine non c’è alcun intento regressivo: “decrescita”, quindi, è piuttosto uno slogan, “una parola d’ordine che significa abbandonare radicalmente l’obiettivo della crescita per la crescita, un obiettivo il cui motore non è altro che la ricerca del profitto da parte dei detentori del capitale e le cui conseguenze sono disastrose per l’ambiente” e per l’equità sociale (Latouche, 2006: 11). La parola “decrescita” va quindi intesa come un’arma linguistica contro il conformismo intellettuale e politico per spingere le persone a riflettere all’interno di un altro quadro concettuale. Vale insomma la regola di Albert Einstein secondo la quale “non possiamo risolvere i nostri problemi con il pensiero che avevamo quando li abbiamo creati”: è difficile condurre una lotta alle disuguaglianze, all’esclusione sociale e alle diverse forme di vulnerabilità restando all’interno dello stesso frame che le ha prodotte. Da questo punto di vista risulta quantomeno bizzarro continuare ad invocare la crescita per combattere la disoccupazione, le iniquità nelle redistribuzioni delle risorse e, più in generale, per produrre benessere: continuare a pensare che solo con la crescita economica si potranno mettere a disposizione le risorse da dedicare al welfare, alla sanità, all’istruzione, ecc. significa dimenticare quanto è accaduto in passato.
Per questo Serge Latouche, fin dagli albori della decrescita, parla della necessità di “decolonizzare l’immaginario” come primo passaggio per creare un’alternativa al modello di sviluppo occidentale che promette ricchezza ma genera povertà, disastri ambientali e sociali: l’economia deve essere rimessa al suo posto come semplice mezzo della vita umana e non come fine ultimo (Latouche, 2003). Da questo punto di vista i teorici della decrescita si allontano dalle tesi marxiste classiche, intente a ricercare forme di ridistribuzione di una torta che si auspica sempre più grande: ridistribuzione e giustizia sociale vanno semmai ricercate in una torta che, a causa della scarsità delle risorse e dei limiti dello sviluppo è destinata a ridursi, come mostrano tutti i principali indicatori di sostenibilità.
Tralasciando i dati drammatici sulla crisi ambientale che confermano ogni giorno la letterale insostenibilità del nostro modello di sviluppo, anche dal punto di vista economico e sociale l’andamento è negativo. I dati mostrano come già dagli anni Settanta, con la fine dei cosiddetti 30 anni gloriosi, le disuguaglianze siano tornate ad aumentare; negli ultimi anni, poi, si è manifestato un processo inedito denominato “crescita senza occupazione” dove all’aumento del Pil non ha corrisposto un aumento dei posti di lavoro, in particolare di “buoni” posti di lavoro. Ancora una volta i dati mettono in evidenza un generale peggioramento delle condizioni di lavoro, dei contratti e delle retribuzioni tanto che oggi si parla sempre più spesso di “impoverimento da lavoro”. Analizzando il caso degli Stati Uniti, Bartolini (2010) ha anche dimostrato che la crescita ha avuto un impatto negativo sulla felicità della maggior parte degli americani.
Cosa invece propone
I teorici della decrescita, quindi, basano le loro riflessioni sulla constatazione del fallimento del modello occidentale dove, come ha riassunto bene Ivan Illich (1973) “l’organizzazione dell’intera economia in funzione dello star meglio è il principale ostacolo allo star bene”. Nei confronti della crescita non c’è alcuna preclusione ideologica: molto semplicemente una serie di “fatti sociali” hanno dimostrato che questo paradigma non è più in grado di garantire il sogno occidentale novecentesco e per questo la decrescita propone un salto paradigmatico. La decrescita punta così verso un nuovo concetto di benessere per gli individui e le società caratterizzato dal fatto che “di più” non è uguale a “meglio”.
L’idea di fondo, che non è neppure così originale, è quella che il benessere possa essere realizzato a minor prezzo a patto che si riesca a ridefinire l’idea stessa di benessere. Per certi versi si tratta delle stesse dinamiche sottolineate da Baudrillard all’inizio degli anni Settanta quando rilevava che una delle contraddizioni della crescita è che produce nello stesso tempo beni e bisogni, senza però produrli allo stesso ritmo; da ciò deriva una “depauperizzazione psicologica”, ovvero uno stato di insoddisfazione generalizzata che “definisce la società della crescita come l’opposto di una società di abbondanza” (Baudrillard, 1970).
Invece di ricercare la crescita per garantire i consumi la decrescita propone l’esatto contrario, ovvero meno consumi per stare meglio. Da ciò deriva necessariamente l’idea che una società senza crescita che voglia essere sostenibile, equa e prospera, non può che essere frugale: “la scelta è tra un’austerità subita, non egualitaria, imposta da circostanze sfavorevoli, e una frugalità comune, generale, volontaria e organizzata, che deriva da una scelta di maggiore libertà e minore consumo di beni materiali” (Ellul, 2013: 213).
Nel pensiero dei suoi sostenitori, la sobrietà rappresenta una valida alternativa ai meccanismi di impoverimento e un antidoto alla percezione della povertà; la vita individuale e collettiva può diventare tanto più ricca quanto più caratterizzata dalla capacità di contenere i bisogni; sarà poi compito della società della decrescita inventare nuove forme di lusso per soddisfare i bisogni di ostentazione, di esibizione o semplicemente di festa che non si vogliono assolutamente negare ma che possono trovare nuove modalità di soddisfazione senza distruggere il pianeta o condannare una parte dell’umanità alla miseria (Latouche, 2011).
Le 8 R
Per realizzare l’obiettivo della drastica diminuzione degli effetti negativi della crescita e attivare dei circoli virtuosi in grado di accompagnarci verso la società della decrescita Latouche (2006: 102) propone un programma basato sulle cosiddette 8 R:
- Rivalutare, ovvero rivedere i valori in cui crediamo e in base ai quali organizziamo la nostra vita: si tratta davvero di riuscire a “decolonizzare l’immaginario” che significa fare pulito nella nostra testa, liberarsi dalle scorie mercantiliste per permettere ai nostri sensi di vedere e sentire ciò che veramente succede nella realtà sociale.
- Ricontestualizzare, modificando il contesto concettuale ed emozionale di una situazione, o il punto di vista secondo cui essa è vissuta, così da mutarne completamente il senso.
- Ristrutturare, adattando in funzione del cambiamento dei valori le strutture economico-produttive i modelli di consumo, i rapporti sociali e gli stili di vita, così da orientarli verso una società di decrescita. Quanto più questa ristrutturazione sarà radicale, tanto più il carattere sistemico dei valori dominanti verrà sradicato. In particolare, come sostenuto da Costoriadis (2005), è necessario un cambiamento della struttura psico-sociale dell’uomo occidentale, del suo atteggiamento rispetto alla vita, in pratica della sua concezione di sé e del mondo.
- Rilocalizzare, nel senso che occorre fare ogni sforzo per consumare prodotti locali, prodotti da aziende sostenute dall’economia locale. Di conseguenza, ogni decisione di natura economica va presa su scala locale, per bisogni locali. Inoltre, se le idee devono ignorare le frontiere, i movimenti di merci e capitali devono invece essere ridotti al minimo, evitando i costi legati ai trasporti (infrastrutture, ma anche inquinamento, effetto serra e cambiamento climatico).
- Redistribuire, ovvero garantire a tutti gli abitanti del pianeta l’accesso alle risorse naturali e ad un’equa distribuzione della ricchezza, assicurando un lavoro soddisfacente e condizioni di vita dignitose per tutti.
- Ridurre, sia l’impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre e consumare che gli orari di lavoro. Il consumo di risorse va ridotto sino a tornare ad un’impronta ecologica pari ad un pianeta.
- Riutilizzare, tornando a riparare le apparecchiature e i beni d’uso anziché gettarli in una discarica, superando così l’ossessione, funzionale alla società dei consumi, dell’obsolescenza degli oggetti e la continua “tensione al nuovo”.
- Riciclare, per recuperare tutti gli scarti non decomponibili derivanti dalle nostre attività.
Le 8 R della decrescita rappresentano una sorta di manifesto operativo di un movimento che non vorrebbe limitarsi a produrre analisi sociale ma che anzi vorrebbe scandire un percorso politico con degli obiettivi da perseguire.
Il progetto della decrescita non è né un progetto per un’altra crescita né per un altro sviluppo (sostenibile, sociale, solidale, ecc.), ma riguarda la costruzione di un’altra società, una società di abbondanza frugale o di prosperità senza crescita (Jackson, 2009). In altre parole, non si tratta di un progetto economico, ma di un progetto di società che implica la fuoriuscita dall’economia in quanto realtà e in quanto discorso di natura imperialistica.
È questo probabilmente uno dei passaggi più controversi, che espone la decrescita alla critica di rappresentare un sogno quantomeno irrealizzabile. Un progetto così concepito presta infatti il fianco ad una serie di giudizi negativi, sia di natura economica che politico-sociale; sono diffuse anche le opinioni che tendono a destituire la decrescita di ogni fondamento sostenendo che sarà proprio il progresso tecnologico a salvare l’umanità, accusando la decrescita di prospettare un futuro apocalittico.
Rinunciando a presentare anche le “difese”, tutte supportate da argomentazioni altrettanto forti e circostanziate, è innegabile che la decrescita si presenti come una sorta di “utopia concreta”, nel senso positivo datole da Ernst Bloch: immagina una società migliore pur restando con i piedi piantati per terra, badando a ciò che è realmente conseguibile. In effetti ci sono tante esperienze concrete e positive che parlano lo stesso linguaggio della decrescita: ad esempio, si va dalla banca del tempo ai gruppi di acquisto solidale, dalle numerose esperienze di filiera corta alle forme cooperative di comunità, passando attraverso i movimenti per i beni comuni.
Si tratta di piccole esperienze, spesso scarsamente significative rispetto alla grande economia finanziaria, ma se da un lato ciò rappresenta la sua debolezza, dall’altro diventa la sua vera forza propositiva.
Riferimenti bibliografici
- Bartolini S. (2010), Manifesto per la felicità. Come passare dalla società del ben-avere a quella del ben-essere, Roma, Donzelli.
- Baudrillard J. (1970), La societé de consomation, Parigi, Gallimard (trad. it. La società dei consumi, Bologna, il Mulino).
- Castoriadis C. (2005), Une societé à la derive. Entretiens et débat 1974-1997, Parigi, Seuil.
- Cochet Y. (2013), “La catastrofe imminente”, in S. Latouche, Y. Cochet, J.-P. Dupuy e S. George (a cura di), Dove va il mondo. Un decennio sull’orlo della catastrofe, Torino, Bollati-Boringhieri.
- Ellul J. (2013), Pour qui, pour quoi travaillons-nous?, a cura di M. Hourcade, J.-P. Jézéquel e G. Paul, Parigi, La Table Ronde.
- Jackson T. (2009), Prosperity Without Growth: Economics for a Finite Planet, Londra, Routledge (trad. it. Prosperità senza crescita. Economia per il pianeta reale, Milano, Edizioni ambiente, 2011).
- Illich I. (1973), Tools for Conviviality, New York, Harper & Row (trad. it. La convivialità. Una proposta libertaria per una politica dei limiti allo sviluppo, Milano, Mondadori, 1974).
- Latouche S. (2003), Décoloniser l’imaginaire. La pensée créative contre l’économie de l’absurde, Parigi, Parangon (trad. it. Decolonizzare l’immaginario. Il pensiero creativo contro l’economia dell’assurdo, Bologna, Emi, 2004).
- Latouche S. (2006), Le pari de la décroissance, Parigi, Fayard (trad. it. La scommessa della decrescita, Milano, Feltrinelli, 2007).
- Latouche S. (2011), Vers une société d’abondance frugale. Contresens et controverses sur la décroissance, Parigi, Fayard (trad. it. Per un’abbondanza frugale. Malintesi e controverse sulla decrescita, Torino, Bollati-Boringhieri, 2011).
Suggerimenti di lettura
- Bonaiuti M. (2013), La grande transizione. Dal declino alla società della decrescita, Torino, Bollati-Boringhieri.
- Meadows D.H., Meadows D.L., Randers J., Behrens W.W. III (1972), The Limits to Growth, Washington, Potomac (trad. it. I limiti dello sviluppo, Milano, Mondadori, 1973).
- Pallante M. (2005), La decrescita felice. La qualità della vita non dipende dal Pil, Roma, Editori riuniti.
- Wackernagel M. e W.E. Rees (1996), Our ecological footprint: reducing human impact on the earth, Philadelphia, New Society Publishers (trad. it. L’impronta ecologica. Come ridurre l’impatto dell’uomo sulla terra, Milano, Edizioni Ambiente, 2008).
- Si consiglia inoltre la visione dei volumi presenti nella collana I precursori della decrescita, edita Jaca Book.