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Politiche attive del lavoro

Scritto da: Emilio Reyneri

 

Definizione

Mentre le politiche passive del lavoro sono dirette a sostenere le condizioni di vita di chi è senza lavoro, erogando loro un’indennità di disoccupazione o un reddito minimo, le politiche attive del lavoro sono azioni dirette a favorirne l’accesso a un’occupazione, con particolare riguardo a coloro che incontrano maggiori difficoltà (ad esempio giovani, donne, disoccupati di lunga durata, portatori di handicap), sia aiutandoli nell’attività di ricerca, sia migliorandone le competenze, sia riducendone il costo del lavoro per le imprese, sia anche direttamente creando occasioni di lavoro. Le misure di politica attiva del lavoro solo in parte prevedono erogazioni monetarie (incentivi per ridurre il costo del lavoro o per aiutare l’avvio di iniziative imprenditoriali), consistendo per lo più in interventi rivolti ai disoccupati attuati da organizzazioni, soprattutto i servizi pubblici per l’impiego ma anche agenzie del lavoro private, centri di formazione professionale o altre strutture formative, comunque grazie a finanziamenti pubblici.

La gamma delle misure di politica attiva del lavoro è amplissima e molto differenziata nei paesi europei (Kluve, 2007; Lagala e D’Onghia, 2010; Cantalupi e Demurtas, 2009). Non senza fatica, un tentativo di classificazione è sintetizzato in Reyneri (2002).

 

Le principali misure

1. L’informazione e l’orientamento professionale 

Poiché la domanda di lavoro non è più organizzata nei “blocchi” visibili dalle grandi imprese ed è soggetta a rapidi mutamenti, sono importanti le iniziative per diffondere informazioni e orientare chi cerca lavoro. L’informazione professionale fornisce conoscenze (dall’evoluzione del sistema delle professioni alle opportunità di occupazione e alle occasioni di formazione), mentre l’orientamento professionale mira anche a far emergere le attitudini personali, indicando i lavori per i quali vi sono maggiori opportunità. Lo scopo è di rafforzare la capacità di fare scelte consapevoli delle proprie inclinazioni e possibilità e trovare così un lavoro adeguato. Sono misure rivolte in particolare ai giovani.

2. L’assistenza alla ricerca del lavoro  

I disoccupati o i lavoratori a serio rischio di perdere l’occupazione possono essere inseriti in programmi di ricerca intensiva del lavoro, che, oltre al bilancio delle competenze professionali acquisite, possono prevedere diverse misure: dall’aiuto alla compilazione di un curriculum alla preparazione a sostenere un colloquio di lavoro, da un sostegno motivazionale all’affiancamento di un tutor, da brevi corsi di aggiornamento o di riqualificazione alla costituzione di gruppi di auto-aiuto (i job club), all’inserimento in tirocini di inserimento o reinserimento al lavoro.   

3. La formazione continua dei lavoratori occupati

Poiché il progresso tecnico impone di adeguare continuamente le competenze professionali, per i lavoratori occupati possono essere previsti interventi di aggiornamento e di riqualificazione per impedire che le loro conoscenze diventino obsolete. Questi interventi possono svolgersi sia in impresa, sia in strutture formative esterne, e possono esser sostenuti dalla spesa pubblica, ma anche da fondi costituiti dalla contrattazione sindacale.

4. Le azioni positive per i soggetti deboli

Tra le politiche attive sono incluse le azioni positive per favorire l’occupazione di particolari categorie di lavoratori. In Italia praticamente non esistono, poiché anche per i portatori di handicap vige il tradizionale modello del collocamento obbligatorio, cioè il vincolo per le imprese ad assumere una certa quota di lavoratori delle categorie protette, avviati dai centri per l’impiego secondo una graduatoria che non prevede un accertamento attitudinale. Nessun incentivo è concesso alle imprese per compensarle dell’eventuale minore produttività né è offerto loro alcun servizio di consulenza. Diversi sono i modelli premiali e promozionali diffusi nei paesi europei, di cui vi sono alcuni esperimenti a livello locale anche in Italia.

5. Il sostegno a forme di riorganizzazione del lavoro

Altra misura assente in Italia è il sostegno alla rotazione delle mansioni e alla ripartizione di un posto di lavoro tra più lavoratori o job sharing. Questi interventi, che consistono in consulenze organizzative e/o in incentivi alle imprese, possono esser attuati per favorire l’occupazione delle donne e soprattutto per mantenere al lavoro persone anziane in programmi di invecchiamento attivo.

6. La creazione diretta di occupazione

Questa misura consiste nell’impiego in attività a tempo determinato e spesso parziale, con una retribuzione di poco superiore a un sussidio di disoccupazione, di disoccupati che per le loro caratteristiche (età, genere, handicap psico-fisici o sociali, bassa qualificazione) corrono il rischio di rimanere emarginati dal mercato del lavoro. Tali lavori (in Italia denominati un tempo “socialmente utili” e ora “a fini di pubblica utilità”) richiedono un’attenta gestione perché dovrebbero essere professionalmente qualificanti per favorire il reinserimento, rigorosamente temporanei per non alimentare aspettative di stabilizzazione, “fuori mercato” per le imprese private e non compresi nei compiti ordinari di un ente pubblico per non fare concorrenza e, infine, a bassa intensità di capitale per non gravare troppo sulla spesa pubblica.

7. Gli speciali rapporti di lavoro a fini formativi per i giovani

L’apprendistato, lo stage, il tirocinio o altre forme che combinano lavoro e formazione sono particolari rapporti diretti a inserire i giovani nelle imprese e che dovrebbero a formarli “sul lavoro”, a fronte di un sostegno pubblico che consente una forte riduzione del costo del lavoro. Questo costo per la spesa pubblica è compreso tra le politiche attive del lavoro. Tali rapporti di lavoro hanno assunto diverse configurazioni nel tentativo di accrescerne l’efficacia, che dipende soprattutto dalla disponibilità delle aziende a dedicare ai giovani tempo di lavoro dei propri dipendenti o dello stesso imprenditore. Purtroppo, la cultura formativa non è molto diffusa nelle imprese italiane, per lo più di dimensioni troppo piccole, ed è frequente il rischio che questi rapporti (e in particolare gli stage) siano usati per disporre di lavoratori a basso costo, senza assumerli alla fine del rapporto. Differente è il caso dei tirocini curriculari, che sono parte integrante di un percorso di studi.

8. Le start-up

Gli incentivi all’avvio di attività imprenditoriali di piccole dimensioni possono consistere in somme in conto capitale a fondo perduto, in fideiussioni per crediti bancari o anche in sostegni economici per il ricorso a consulenze tecniche e/o manageriali. Di regola sono diretti a iniziative di particolari categorie di lavoratori: soprattutto giovani, ma anche donne, portatori di handicap o altri soggetti considerati deboli.

 

Il costo per lo Stato e il rapporto con le politiche passive

Tutte queste misure sono costose per la spesa pubblica perché richiedono sia di sostenere forti riduzioni del costo del lavoro per le imprese o addirittura l’intero costo del lavoro sia di utilizzare un gran numero di operatori, che dovrebbero avere elevate competenze. Si comprende così la grande differenza esistente tra i paesi dell’Europa occidentale. Rispetto al Prodotto interno lordo, la spesa in politiche attive del lavoro va da poco più di 0,4% di Spagna, Portogallo e Italia sino a oltre 1% di Svezia e Danimarca (OECD, 2013; OECD, 2015). L’Italia raggiunge tale basso livello soprattutto grazie al sostegno dell’apprendistato e a varie forme di incentivo alle assunzioni, mentre la grave debolezza dei servizi pubblici per l’impiego impedisce che si attuino misure più mirate a migliorare l’occupabilità di chi cerca lavoro, benché vi siano esperienze locali molto interessanti (Bresciani e Varesi, 2017).

I paesi che più spendono in politiche attive sono anche quelli che più spendono in quelle passive, perché i principali destinatari delle misure attive sono i disoccupati “in carico” ai centri per l’impiego, che quindi percepiscono delle indennità. Tuttavia, mentre la spesa pubblica in politiche passive dipende molto dall’andamento del livello di disoccupazione, quella in politiche attive è meno variabile nel tempo, poiché, da un lato, finanzia anche misure utili al funzionamento di un mercato del lavoro con bassa disoccupazione e, dall’altro, non può crescere molto anche in caso di forte crisi perché dipende in larga misura dalle strutture organizzative che devono attuare gran parte degli interventi.  

 

La valutazione “micro” delle misure di politica attiva

Poiché spesso il criterio di valutazione è quello della percentuale di persone interessate dalla misura che hanno trovato lavoro, occorre depurare il risultato da tre effetti: di spreco, quando le imprese avrebbero comunque assunto gli stessi lavoratori coinvolti; di sostituzione, nel caso in cui sarebbero stati assunti altri lavoratori; e di spiazzamento, qualora le assunzioni sarebbero comunque avvenute, ma in altre imprese. L’effetto di sostituzione va tuttavia ignorato se lo scopo è quello di redistribuire le occasioni di lavoro a favore di categorie particolarmente svantaggiate.

Ma esiste anche un dilemma tra equità ed efficienza. Poiché si possono costruire misure che interessino per lo più disoccupati meno difficilmente occupabili, non bisognerebbe guardare solo alla percentuale di occupati, ma si dovrebbe confrontare tale percentuale con quella di un “gruppo di controllo” di lavoratori con le stesse caratteristiche, ma non interessati dalla misura. Si tratta di un disegno della ricerca complesso che viene adottato raramente. Perciò chi attua politiche del lavoro con obiettivi di equità sociale (assicurare migliori opportunità ai soggetti più svantaggiati) deve confrontarsi con le pressioni di chi valuta (e finanzia) i progetti in base ai risultati quantitativi “lordi”. Gli operatori, consapevoli o meno di questa contrapposizione, tendono spesso a risolverla privilegiando l’auto-selezione dei lavoratori in base alla motivazione: i primi a essere presi in considerazione sono i più motivati alla ricerca di un lavoro. Ma dietro una forte motivazione sta una fiducia in sé che spesso non si trova nei soggetti più svantaggiati; quindi si rischia di ricreare il circuito vizioso dell’esclusione. D'altronde, poiché chi non è motivato probabilmente trarrebbe pochi benefici dalla misura, l’approccio motivazionale non può essere ignorato. Il problema diventa piuttosto quello di suscitare una motivazione in chi ne è privo. Anche questo può essere un obiettivo delle politiche attive, senza dimenticare che i soggetti più emarginati e deboli rischiano di non esser presi neppure in considerazione perché non si iscrivono ai centri per l’impiego o non rispondono alle loro sollecitazioni (Nicaise et al., 1995).

I risultati migliori sono associati a misure mirate, cioè attuate per rispondere a bisogni di persone o gruppi particolari, mentre quelle senza precisi destinatari presentano più marcati effetti di spiazzamento e di sostituzione; così il risparmio raggiunto grazie a una maggiore standardizzazione può rivelarsi apparente, poiché elevato è il rischio di non raggiungere gli obiettivi.

 

L’attuale situazione in Italia

Come i centri per l’impiego, le politiche attive del lavoro sono per lo più appannaggio delle regioni, pur in un quadro legislativo più vincolante per alcune misure, come per l’apprendistato. Solo gli interventi meramente monetari, che non richiedono un’interazione con i lavoratori, come gli sgravi contributivi alle assunzioni e gli incentivi all’avvio di attività imprenditoriali, sono regolati dalla legislazione nazionale. La neonata Agenzia per le Politiche Attive (ANPAL), dopo il fallimento della riforma costituzionale del 2016, svolge solo una funzione di blando indirizzo. Perciò la diversità è totale, non solo tra regioni, ma anche tra province della stessa regione e, accanto a poche esperienze di livello europeo (Bresciani e Varesi, 2017), vi è il deserto dei centri per l’impiego che svolgono solo compiti meramente amministrativi, tutt’al più distribuendo voucher a chi cerca lavoro per corsi di formazione da utilizzare presso centri privati. Per chi ha perso il lavoro recentemente è stato istituito l’assegno di ricollocazione, spendibile presso i centri per l’impiego e le agenzie del lavoro private, che prevede l’affiancamento di un tutor e un programma di ricerca intensiva della nuova occupazione, con eventuale percorso di riqualificazione professionale mirata, ma ben pochi ne hanno usufruito.

 

Riferimenti bibliografici

  • Bresciani P. G. e P. A. Varesi (2017, a cura di) Servizi per l'impiego e politiche attive del lavoro: le buone pratiche locali, risorsa per il nuovo sistema nazionale, Milano, Franco Angeli.
  • Cantalupi M. e M. Demurtas (2009, a cura di) Politiche attive del lavoro, servizi per l'impiego e valutazione. Esperienze e percorsi in Italia e in Europa, Bologna, Il Mulino.
  • Kluve J. (2007) Active Labor Market Policies in Europe, Berlino, Springer.
  • Lagala C. e M. D’Onghia (2010, a cura di), Politiche di attivazione dei disoccupati in Europa, Roma, Ediesse.
  • Nicaise I., J. Bollens e L. Dawes (1995) “Pitfalls and Dilemmas in Labour Market Policies for Disadvantaged Groups - and How To Avoid Them”, Journal of European Social Policy, 5(3), 199-217.
  • OECD (2013) Employment Outlook, Parigi, OECD.
  • OECD (2015) Employment Outlook, Parigi, OECD.
  • Reyneri E. (2002) “Le politiche attive del lavoro e i servizi per l’impiego”, in E. Reyneri (a cura di), Sociologia del mercato del lavoro, Bologna, Il Mulino.

 

Suggerimenti di lettura

  • Cantalupi M. e M. Demurtas (2009, a cura di) Politiche attive del lavoro, servizi per l'impiego e valutazione. Esperienze e percorsi in Italia e in Europa, Bologna, Il Mulino.
  • Reyneri E. (2002) “Le politiche attive del lavoro e i servizi per l’impiego”, in E. Reyneri (a cura di), Sociologia del mercato del lavoro, Bologna, Il Mulino.
  • Si consiglia inoltre di visitare il sito web dell’Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro (ANPAL).
Emilio Reyneri
Emilio Reyneri è professore emerito di Sociologia del lavoro presso il Dipartimento di sociologia e ricerca sociale dell’Università di Milano Bicocca. Tra le sue ultime pubblicazioni: Introduzione alla sociologia del mercato del lavoro, Il Mulino, 2017 e “Le basi sociali del populismo”, in Stato e mercato, 2018, n. 1.

Progetto realizzato da

Fondazione Ermanno Gorrieri per gli studi sociali

Con il contributo di

Fondazione Cassa di Risparmio di Modena