NEET
Cosa misura il tasso di NEET
Nel percorso di transizione scuola-lavoro ci si può trovare nella condizione di essere ancora studente, in quella di avere un impiego, in quella di combinare l’attività prevalente di studio con una esperienza di lavoro o un lavoro continuando a studiare, ma c’è anche la condizione di chi non studia e non lavora. Il numero di coloro che si trovano in quest’ultima situazione sul totale dei giovani (indicati con la sigla NEET: Not in Education, Employment or Training) può essere considerato il principale indicatore di quanto un Paese o un territorio “spreca” il proprio capitale umano più prezioso. Ovvero, una misura di quanto una comunità dilapida il potenziale delle nuove generazioni, a scapito non solo dei giovani stessi ma anche delle proprie possibilità di sviluppo e benessere.
Idealmente, nel percorso che dalla scuola porta al lavoro, dovrebbe essere: a) basso il numero di chi è uscito dal sistema di istruzione senza riuscire ad accedere al mondo produttivo con adeguato contratto; b) breve il tempo in cui ci si trova in tale situazione; c) legato a motivi personali più che ad ostacoli e inefficienze incontrate nel processo di transizione.
Il focus sui NEET ha origine nel Regno Unito verso la fine del secolo scorso. Il suo uso diffuso inizia dal 2010 quando l’Unione europea adotta il tasso di NEET come indicatore di riferimento sulla condizione lavorativa delle nuove generazioni e come spia del rischio di esclusione sociale.
Uno dei maggiori pregi di tale indicatore è quello di tener conto non solo di chi cerca attivamente lavoro (tecnicamente “disoccupati”, parte della “forza lavoro” assieme agli occupati) ma anche degli “inattivi”. In quest’ultimo gruppo rientrano però sia gli “scoraggiati” (ovvero chi non cerca più, ma vorrebbe lavorare) sia coloro che non sono interessati al lavoro. Il fatto che nel tasso dei NEET rientri anche quest’ultima sottocategoria - che non solo non fa parte della forza di lavoro in senso stretto, ma nemmeno di quella potenziale - è l’aspetto più criticabile. È però utile tener presente che tra chi risponde di non essere attualmente interessato ad un lavoro rientrano anche coloro che svolgono un lavoro sommerso e le persone (soprattutto donne) impegnate in attività informali di cura, che potrebbero essere incluse nel mercato del lavoro in presenza di adeguati strumenti di conciliazione.
In principio l’indicatore era focalizzato sullo snodo 18-19 anni, successivamente l’attenzione si è però estesa a tutta la fascia strettamente giovanile, ovvero quella dai 15 ai 24 anni. Con l’accentuarsi del fenomeno e il rischio di cronicizzazione, è diventata prevalente, soprattutto nei paesi del Sud Europa, l’adozione di una definizione più ampia che arriva ai 29 anni (includendo quindi anche i “giovani-adulti”).
Nel dibattito pubblico il termine NEET è spesso erroneamente fatto corrispondere a due estremi di giovani che si trovano nella condizione di “non studio e non lavoro”: quello degli scoraggiati e demotivati (desiderosi di lavorare ma con esperienze negative e carenza di politiche attive di supporto) e quello degli “sdraiati” e indolenti (poco interessati a impegnarsi nello studio e nel lavoro). Trasformando così l’uso del termine da individuazione oggettiva di una condizione a etichetta negativa sui soggetti in tale condizione.
Dimensioni e caratteristiche del fenomeno
Rispetto alla dimensione del fenomeno (in riferimento alla fascia 15-29), i dati Eurostat evidenziano che: l’Italia presentava livelli più elevati della media europea prima della crisi economica (18,8% nel 2007 contro 13,2% Ue-28); il fenomeno è aumentato maggiormente nel nostro Paese durante la recessione (con punta sopra il 26,2% nel 2014 contro 15,4% Ue-28); negli anni di uscita dalla crisi la nostra discesa risulta più lenta. Il dato più recente è quello del 2017, con il nostro Paese che presenta un valore pari al 24,1% (superato solo dalla Bulgaria, mentre il dato Ue-28 è pari al 13,4%). Da notare che le regioni del Nord Italia prima della crisi si trovavano sotto la media europea, mentre oggi si trovano sopra (fa eccezione solo la Provincia autonoma di Bolzano). Ad esempio, la Lombardia è salita dal 10,9 del 2007 a oltre il 18% negli anni di punta della recessione, scendendo poi a 15,9 percento nel 2017 (ovvero 5 punti percentuali sopra il dato iniziale).
Sul complesso degli under 30 che non studiano e non lavorano, un po’ più del 40% è in ricerca attiva (disoccupati nella definizione classica) mentre il resto si divide quasi equamente tra forza lavoro potenziale (persone che non cercano ma che accetterebbero un’offerta) e non attualmente interessati ad un impiego (categoria variegata su cui torneremo più avanti).
In valore assoluto prevalgono tra i NEET le persone con titolo di studio intermedio (scuola secondaria superiore), ma in termini relativi il rischio più alto di scivolare e trovarsi intrappolati in tale condizione corrisponde a chi ha istruzione bassa. Secondo i dati Eurofound, nella composizione dei NEET, in Italia è più bassa rispetto alla media europea la quota di chi ha problemi fisici, mentre è maggiore quella di chi è disoccupato di lunga durata e di chi è scoraggiato.
I fattori che spiegano l’accentuazione del fenomeno in Italia rispetto agli altri paesi sono sostanzialmente tre: a) Molti giovani si trovano, all’uscita dal sistema formativo, carenti di adeguate competenze e sprovvisti di esperienze richieste dalle aziende. b) Molti altri, pur avendo elevata formazione e alte potenzialità, non trovano posizioni all’altezza delle loro capacità e aspettative. c) Infine, mancano strumenti efficaci per orientare e supportare i giovani nella ricerca di lavoro. Siamo, del resto, uno dei paesi europei che meno investono in istruzione tecnico-professionale, in formazione terziaria, in politiche attive del lavoro, in ricerca e sviluppo.
Il fatto che la quota di NEET si sia potuta accrescere in modo così abnorme è legato anche a due specificità italiane, senza le quali non si spiegherebbe come tale condizione non sia esplosa come dramma sociale. La prima è un modello culturale che rende accettabile una lunga dipendenza dei figli adulti dai genitori, la seconda è l’ampia quota di economia sommersa all’interno della quale prolifera il lavoro in nero.
Tra chi dice di non essere interessato ad un posto di lavoro c’è chi sta aspettando di aprire un’attività o sta valutando possibili opzioni o svolge attività di aiuto in famiglia, ma c’è anche chi svolge un lavoro irregolare continuativo. Inoltre, anche nel gruppo di chi dice di non cercare lavoro perché scoraggiato, pur essendo disposto ad accettarne uno se gli venisse offerto, è presente una parte di giovani che si arrangia facendo saltuariamente lavoro in nero o scivolando nella sfera della microcriminalità. Molti alternano la condizione di NEET con lavoretti saltuari: sono coloro che annaspano nell’area grigia tra lavoro precario e non lavoro.
Possiamo pensare ai giovani che escono dal percorso formativo come a delle lampadine di vari colori. Quelle verdi sono gli occupati, quelle rosse sono i disoccupati in ricerca attiva, quelle gialle sono in attesa di un’offerta concreta. Quelle bianche sono i non interessati (ma alcune sono nere perché in realtà impiegate nel sommerso). Ma ci sono anche molte lampadine spente, difficili sia da individuare che da riaccendere. Sono i NEET scoraggiati cronici, scivolati in un processo di decadimento di motivazioni e competenze che li allontana sempre di più dal mercato del lavoro. Sono i giovani “fuori dal radar”, che le politiche di attivazione fanno fatica a raggiungere. È soprattutto tra questi ultimi che prevalgono i ragazzi usciti precocemente dagli studi e provenienti da famiglie svantaggiate, carenti non solo di competenze tecniche ma anche delle cosiddette life skills come, ad esempio, la capacità di relazione, la disponibilità a mettersi in gioco, l’autoefficacia o la fiducia nelle proprie potenzialità.
Azioni di policy
Per ridurre il numero di NEET è necessario agire sia sullo “stock”, ovvero su chi si trova già da (troppo) tempo in tale condizione e fatica ad uscirne, sia sul “flusso”, ovvero su chi sta finendo gli studi e si appresta ad entrare nel mercato del lavoro. Nel primo caso serve sia un salto di qualità dei centri per l’impiego sia una collaborazione con le realtà sociali, enti non profit e associazioni che operano sul territorio, per migliorare la capacità di raggiungere (intercettare) i più scoraggiati e rivolgere proposte che aiutino a riaccendersi (ingaggiare) per i più delusi e sfiduciati. Assieme ad azioni di prossimità va considerato anche l’uso dei social network. Nel secondo caso è necessario rafforzare il contrasto alla dispersione scolastica, migliorare l’orientamento formativo e il raccordo tra scuola e lavoro, non solo potenziando nella scuola la formazione di competenze che servono alle aziende, ma anche incentivando le aziende a valorizzare il capitale umano.
La principale misura messa in campo in Italia per riattivare i NEET è stato il Piano “Garanzia giovani” finanziato dall'Ue e avviato a maggio 2014 per una durata di 4 anni. Si rivolgeva alle persone sotto i 30 anni, alle quali veniva proposto di iscriversi ad un portale dedicato per ottenere entro quattro mesi un’offerta “qualitativamente” valida di lavoro, di tirocinio o di ulteriore formazione. Tale Piano ha ottenuto risultati sotto le aspettative. Quando è stato attivato i NEET erano circa 2,4 milioni e ad inizio 2018 risultano essere ancora sopra i 2 milioni (il valore assoluto più alto in Europa). I presi in carico dal programma sono stati meno di un milione, poco più di mezzo milione ha ricevuto una proposta, meno della metà ha ottenuto un effettivo lavoro. Va inoltre considerato che tra chi si è iscritto al portale erano sovra-rappresentati i giovani più qualificati e attivi, che però spesso non hanno ricevuto offerte all’altezza delle aspettative, mentre fuori dal radar sono rimasti in larga parte quelli con titoli più bassi e con meno supporto sociale, che invece maggiormente avrebbero potuto trarre beneficio dal Piano. “Garanzia giovani” lascia comunque almeno due eredità positive. La prima è la maggior consapevolezza e determinazione nel procedere verso un potenziamento dei servizi per il lavoro efficaci su tutto il territorio nazionale. La seconda è data dalle numerose iniziative in sinergia a Garanzia giovani che sono spontaneamente nate sul territorio, in collaborazione con associazioni e organizzazioni non pubbliche. Non è chiaro però ora come questa consapevolezza verrà utilizzata per fare un vero salto di qualità.
Va infine aggiunto che l’Italia ha accumulato anche un elevato numero di “NEET tardivi” ovvero di giovani-adulti che si trovano in tale condizione, in età fuori dallo stesso target considerato da Garanzia giovani. In particolare, nella fascia 30-34 anni sono quasi un milione le persone che non studiano e non lavorano. Il rischio per gran parte di essi è di esclusione sociale permanente, con rinuncia definitiva a solidi progetti di vita.
Come documentano varie ricerche le ricadute negative di questo fenomeno sono di vario tipo: minori entrate fiscali, costi maggiori per prestazioni sociali, malessere sociale. Il costo sociale, stimato dall’Eurofound, è pari all’1,2 percento del Pil europeo, si sale a valori attorno al 2 percento in Italia. Ci sono poi però anche costi individuali, sia materiali che psicologici, di difficile quantificazione. La permanenza nella condizione di NEET tende a produrre, infatti, nei singoli un effetto corrosivo, come evidenziano i dati dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo, al «non» studio e lavoro tendono ad associarsi anche altri «non» sul versante delle scelte di autonomia, di formazione di una famiglia, di partecipazione civica, di piena cittadinanza.
Il fenomeno non va però letto solo in termini di costi, ma anche di mancata opportunità del sistema Paese di mettere la sua componente più preziosa e dinamica nella condizione di contribuire pienamente alla produzione di crescita presente e futura.
Suggerimenti di lettura
- Alfieri S., E. Sironi, E. Marta, A. Rosina e D. Marzana (2015), “Young Italian NEETs (Not in Employment, Education, or Training) and the Influence of Their Family Background”, Europe's Journal of Psychology, 11(2), 311-322.
- Alfieri A. e E. Sironi (2017, a cura di), “Una generazione in panchina. Da NEET a risorsa per il Paese”, Quaderni Istituto Toniolo - Rapporto Giovani, 6.
- Istituto Toniolo (2017), La condizione giovanile in Italia. Rapporto giovani 2017, Bologna, Il Mulino.
- ISTAT (2018), Noi Italia. 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo, http://noi-italia.istat.it/. Si veda anche: http://www4.istat.it/it/giovani.
- EUROFOUND (2016), Exploring the diversity of NEETs, Luxembourg, Publications Office of the European Union. Si veda anche: https://www.eurofound.europa.eu/young-people-and-neets-1
- ISFOL (2016), Rapporto sulla Garanzia Giovani in Italia, Roma, ISFOL.
- Pemberton S. (2008), “Tackling the NEET generation and the ability of policy to generate a ‘NEET’ solution - Evidence from the UK”, Environment and Planning C: Politics and Space, 26(1), 243-259.
- Rosina A. (2015), Neet. Giovani che non studiano e non lavorano, Milano, Vita & Pensiero.
- Rosina A. (2016), “Riattivare i NEET: da vittime della crisi a protagonisti della crescita”, Italianieuropei, 2-3/2016.
- Rosolen G. e F. Seghezzi (2016, a cura di), “Garanzia Giovani due anni dopo. Analisi e proposte”, ADAPT Labour Studies e-Book, 55.