Nuovo umanesimo del lavoro
Verso un nuovo umanesimo del lavoro
I limiti dell’attuale cultura del lavoro sono ormai divenuti evidenti ai più, anche se non c’è convergenza di vedute sulla via da percorrere per giungere al loro superamento. La via che qui si suggerisce inizia dalla presa d’atto che il lavoro, prima ancora che un diritto, è un bisogno insopprimibile della persona. È il bisogno che l’uomo avverte di trasformare la realtà di cui è parte e, così agendo, di edificare sé stesso. Riconoscere che quello del lavoro è un bisogno fondamentale è un’affermazione assai più forte che dire che esso è un diritto. E ciò per la semplice ragione che, come la storia insegna, i diritti possono essere sospesi o addirittura negati; i bisogni, se fondamentali, no. È noto, infatti, che non sempre i bisogni possono essere espressi direttamente in forma di diritti politici o sociali. Bisogni come fraternità, amore, dignità, senso di appartenenza, non possono essere rivendicati come diritti. Piuttosto, essi sono espressi come prerequisiti di ogni ordine sociale (Ignatieff, 1986).
Per cogliere il significato del lavoro come bisogno umano fondamentale ci si può riferire alla riflessione classica, da Aristotele a Tommaso d’Aquino, sull’agire umano. Due le forme di attività umana che tale pensiero distingue: l’azione transitiva e l’azione immanente. Mentre la prima connota un agire che produce qualcosa al di fuori di chi agisce, la seconda fa riferimento ad un agire che ha il suo termine ultimo nel soggetto stesso che agisce. In altro modo, il primo cambia la realtà in cui l’agente vive; il secondo cambia l’agente stesso. Ora, poiché nell’uomo non esiste un’attività talmente transitiva da non essere anche sempre immanente, ne deriva che la persona ha la priorità nei confronti del suo agire e quindi del suo lavoro. Duplice la conseguenza che discende dall’accoglimento del principio-persona (Caffarra, 2005).
La prima conseguenza è bene resa dall’affermazione degli Scolastici “operari sequitur esse”: è la persona a decidere circa il suo operare; quanto a dire che l’auto-generazione è frutto dell’auto-determinazione della persona. Quando l’agire non è più sperimentato da chi lo compie come propria auto-determinazione e quindi propria auto-realizzazione, esso cessa di essere umano. Quando il lavoro non è più espressivo della persona, perché non comprende più il senso di ciò che sta facendo, il lavoro diventa schiavitù. L’agire diventa sempre più transitivo e la persona può essere sostituita con una macchina quando ciò risultasse più vantaggioso. Ma in ogni opera umana non si può separare ciò che essa significa e ciò che essa produce.
La seconda conseguenza cui sopra si accennava chiama in causa la nozione di giustizia del lavoro. Il lavoro giusto non è solamente quello che assicura una remunerazione equa a chi lo ha svolto, ma anche quello che corrisponde al bisogno di autorealizzazione della persona che agisce e perciò che è in grado di dare pieno sviluppo alle sue capacità. In quanto attività basicamente trasformativa, il lavoro interviene sia sulla persona sia sulla società; cioè sia sul soggetto sia sul suo oggetto. Questi due esiti, che scaturiscono in modo congiunto dall’attività lavorativa, definiscono la cifra morale del lavoro. Proprio perché il lavoro è trasformativo della persona, il processo attraverso il quale vengono prodotti beni e servizi acquista valenza morale, non è qualcosa di assiologicamente neutrale. In altri termini, il luogo di lavoro non è semplicemente il luogo in cui certi input vengono trasformati, secondo certe regole, in output; ma è anche il luogo in cui si forma (o si trasforma) il carattere del lavoratore. È questa un’idea che già il grande economista inglese Alfred Marshall aveva anticipato alla fine dell’Ottocento.
La libertà del lavoro
Quel che precede ci consente ora di afferrare la portata della grande sfida che è di fronte a noi: come realizzare le condizioni per una autentica libertà del lavoro, intesa come possibilità concreta che il lavoratore ha di realizzare non solo la dimensione acquisitiva del lavoro – la dimensione che consente di entrare in possesso del potere d’acquisto con cui soddisfare i bisogni materiali – ma anche la sua dimensione espressiva. Dove risiede la difficoltà di una tale sfida? Nella circostanza che le nostre democrazie liberali mentre sono riuscite a realizzare (tanto o poco) le condizioni per la libertà nel lavoro – grazie alle lunghe lotte del movimento operaio e sindacale – paiono impotenti quando devono muovere passi verso la libertà del lavoro. La ragione è presto detta. Si tratta della tensione fondamentale tra la libertà dell’individuo di definire la propria concezione della vita buona e l’impossibilità per le democrazie liberali di dichiararsi neutrali tra “modi di vita che contribuiscono a produrre [beni e servizi] e quelli che non vi contribuiscono” (Gutmann e Thompson, 1996). In altri termini, una democrazia liberale non può accettare che qualcuno, per vedere affermata la propria visione del mondo, possa vivere sul lavoro di altri. La tensione origina dalla circostanza che non tutti i tipi di lavoro sono accessibili a tutti e pertanto non c’è modo di garantire la congruità tra un lavoro che genera valore sociale e un lavoro che interpreti la concezione di vita buona delle persone.
Come osserva Mori (2002), la riforma protestante per prima ha sollevato la questione della libertà del lavoro. Nella teologia luterana, la cacciata dall’Eden non coincide tanto con la condanna dell’uomo alla fatica e alla pena del lavoro, quanto piuttosto con la perdita della libertà del lavoro. Prima della caduta, infatti, Adamo ed Eva lavoravano bensì, ma le loro attività erano svolte in assoluta libertà, con l’unico scopo di piacere a Dio. Che le condizioni storiche attuali siano ancora alquanto lontane dal poter consentire di rendere fruibile il diritto alla libertà del lavoro è cosa a tutti nota. Tuttavia, ciò non può dispensarci dalla ricerca di strategie credibili di avvicinamento a quell’obiettivo. Secondo Muirhead (2004), la proposta di A. MacIntyre di concettualizzare il lavoro come opera è quella che appare come la più realisticamente praticabile.
Un’attività lavorativa si qualifica come opera quando riesce a far emergere la motivazione intrinseca della persona che la compie. Estrinseca è la motivazione che induce ad agire per il risultato finale che l’agente ne trae (ad esempio, per la remunerazione ottenuta). Intrinseca, invece, è la motivazione che spinge all’azione per la soddisfazione diretta che essa arreca al soggetto quando questi percepisce che essa è orientata al bene. È noto che la qualità che un individuo può esprimere nel suo lavoro è di due tipi: codificata, l’una, tacita, l’altra. La prima è la qualità che può essere accertata, sulla base di protocolli e codici previamente fissati, anche da una parte terza che può sanzionare, se del caso, comportamenti devianti o opportunistici. Tacita, invece, è la qualità di una prestazione lavorativa che non è verificabile da parti terze. Ora, mentre per ottenere un’elevata qualità codificata si può intervenire con adeguati schemi di incentivo (monetari o non), per conseguire livelli elevati di qualità tacita non c’è altra via che quella di far leva sulla motivazione intrinseca del lavoratore. Si osservi che in non pochi contesti produttivi la qualità tacita è, oggi, assai più rilevante di quella codificata, perché è dalla prima che deriva la capacità di innovare.
Il lavoro come opera
Si pone la domanda: cosa è necessario fare per rendere praticabile la strategia del lavoro come opera? Che si abbia il coraggio, oltre che l’intelligenza, di andare oltre il modello ford-taylorista di organizzazione del lavoro introdotto all’epoca della seconda rivoluzione industriale. È questo un modello centrato sul postulato della rigida divisione e specializzazione fra chi dirige e chi esegue; tra chi è autorizzato a pensare e chi è addetto a mansioni routinarie e alienanti. Non si fa fatica a comprendere come restando all’interno della gestione scientifica del lavoro tipica del taylorismo – o anche del neo-taylorismo – mai potrà realizzarsi la libertà del lavoro. Quest’ultima, infatti, non è compatibile con nessuno dei due principali schemi organizzativi per gestire il processo lavorativo. Né con quello del mercato interno che idealizza l’organizzazione d’impresa come se fosse un microcosmo basato sulla logica meritocratica; né con quello della gerarchia, come è appunto lo schema tayloristico, oggi ancora largamente applicato.
La forma organizzativa verso cui tendere è piuttosto quella della comunità: l’impresa come comunità, dunque né come merce, né come gerarchia e nella quale le non-cognitive skills ricevono adeguata considerazione. Mintzberg (2009) ha bene chiarito, che i principi fondativi del modello della comunità sono il dialogo, la trasparenza, la condivisione. Sono questi gli stessi principi che definiscono compiutamente il lavoro come opera. In quanto centrato sulla persona – e non sull’individuo – il modello della comunità consente la piena valorizzazione della creatività di chi lavora, esaltandone il potenziale umano. Non si tratta di qualcosa di utopico, perché ormai parecchie, anche se ancora in posizione minoritaria, sono le organizzazioni di impresa che vanno adottando un tale modello conseguendo risultati di eccellenza (per esempi concreti si rinvia a Robertson, 2018). È agevole darsene conto. Nella società della conoscenza, le tecniche diventano obsolete sempre più in fretta, trascinando nell’area dell’obsolescenza anche le abilità umane troppo rigidamente circoscritte all’ambito di pertinenza di queste tecniche. Ecco perché l’impresa ha sempre maggiore bisogno di creatività, ma è evidente che ciò è possibile se il senso del lavoro viene spostato sempre di più verso comportamenti non istintivi e non abituali. Vale a dire se l’impresa non limita le relazioni tra gli individui che in essa agiscono a stili di pensiero e di azione basati su routine e su comportamenti meccanizzabili. Deming (2018) fornisce una pregevole conferma teorica della rilevanza, nell’odierno mercato del lavoro, delle abilità sociali e relazionali dei lavoratori, dando visione del perché l’empatia salverà il lavoro umano nonostante l’introduzione nei processi produttivi dei robot umanoidi.
Riferimenti bibliografici
- Caffarra C. (2005), “Il lavoro come opera”, Lezione Magistrale presso l’Istituto “Veritatis Splendor”, Bologna, 12 febbraio 2005.
- Deming D. (2018), “The growing importance of social skills in the labor market”, Quarterly Journal of Economics, 132(4), 1593-1640.
- Gutmann A. e D. Thompson (1996), Democracy and disagreement, Cambridge (MA), Belknap Press.
- Ignatieff M. (1986), I bisogni degli altri, Bologna, Il Mulino.
- Mintzberg H. (2009), “Rebuilding Companies as Communities”, Harvard Business Review, luglio-agosto 2009.
- Mori G. (2002), “Diritto alla libertà del lavoro”, Iride, 36.
- Muirhead R. (2004), Just work, Cambridge (MA), Harvard University Press.
- Robertson B. (2018), Holacracy. Come superare la gerarchia, Milano, Guerini.