Glossario

Il "Glossario delle disuguaglianze sociali" mira a realizzare una raccolta di voci specificamente dedicate alla problematica delle disuguaglianze economiche e sociali, nella prospettiva di uno strumento di conoscenza e di informazione di base, durevole e continuativo. Le voci presenti sul portale - curate da professori, ricercatori ed esperti sui temi di interesse del Glossario - rappresentano il solido inizio di un progetto sempre attivo e in continua espansione. Pertanto, se pensi che sia ancora assente nel Glossario qualche argomento di rilevo nello studio delle disuguaglianze sociali, non esitare a segnalarcelo (glossario@fondazionegorrieri.it).

Responsabilità

Scritto da: Stefano Zamagni

 

Premessa*

Responsabilità significa, letteralmente, capacità di risposta e questo ci indica che siamo di fronte ad una nozione intrinsecamente relazionale, perché postula in modo costitutivo la dimensione della risposta. L’atto del rispondere, infatti, rinvia necessariamente alla dualità fra chi dà e chi riceve risposta e al loro rapporto. Ma responsabilità, dal latino res-pondus, significa anche portare il peso delle cose, delle scelte effettuate. Non solamente si risponde “a”, ma anche “di”. Se “rispondere a” significa riconoscere il legame che gli altri ci costituiscono e ci fanno esistere almeno quanto la nostra individualità, “rispondere di” vuol dire invece portare nel rapporto quella unicità e differenza che ci fa diversi dagli altri.

 

Origine e sviluppo

L’interpretazione tradizionale di responsabilità la identifica con il dare conto, rendere ragione (accountability) di ciò che un soggetto, autonomo e libero, produce o pone in essere. Tale nozione di responsabilità, postula dunque la capacità di un agente di essere causa dei suoi atti e in quanto tale di essere tenuto a “pagare” per le conseguenze negative che ne derivano. Nel modello tradizionale, dunque, la responsabilità riposa tutta sul legame tra un soggetto e la sua azione. L’importante è stabilire quali azioni mi appartengono e perciò di quali azioni devo rispondere. Questa, ancora prevalente, concezione della responsabilità lascia però in ombra cosa significhi essere responsabili. Rispondere, come spesso si sente dire, che significa dare conto del proprio agire sarebbe mera tautologia. È questa una situazione, a dir poco, paradossale: ci si appella sempre più alla responsabilità senza sapere quale ne sia il contenuto, la sua ragion d’essere.

Da un cinquantennio a questa parte, ha iniziato a prendere forma un’accezione di responsabilità che la colloca al di là del principio del libero arbitrio e della sola sfera della soggettività, per porla in funzione della vita, per fondare un impegno che vincoli nel mondo. Ciò sta avvenendo sull’onda della presa d’atto che la responsabilità ha sempre più a che fare con il tempo. La rapidità del cambiamento costringe a prendere decisioni di cui non siamo mai in grado di calcolare tutte le conseguenze, in tempo reale. Da una parte, la responsabilità richiede, oggi, di porsi il problema dei vincoli cui le decisioni che assumiamo saranno esposte nel tempo per continuare ad essere efficaci. Dall’altra, occorre sviluppare capacità che facilitino l’uso delle risorse disponibili. La capacità di risposta non può essere perciò solo riferita all’immediatezza delle circostanze presenti, ma deve includere quelle dimensioni temporali che assicurano una qualche continuità della risposta stessa. Ecco perché l’esperienza della responsabilità non può esaurirsi nella semplice accountability. È rimasta giustamente celebre l’affermazione di M.L. King secondo cui “può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla”.

 

Effetti della globalizzazione sul principio di responsabilità

Un aspetto inquietante ma - non è il solo - della globalizzazione è l’anonimato dei suoi protagonisti e gli effetti a lunga gittata delle loro operazioni. La decisione presa in un certo luogo o in una certa piazza d’affari tende ad avere ripercussioni molto lontane. Le cause sono molto distanti dai loro effetti. Non solo, ma troppo spesso questi effetti sono generati da una pluralità di micro-azioni che si sommano in modo tale che non è possibile imputare al singolo partecipante all’azione comune la totalità degli effetti prodotti. È questo ciò che accade nei casi di “tirannia delle piccole decisioni”. La tirannia si verifica tutte le volte in cui un numero di decisioni, singolarmente razionali e giuridicamente lecite, di modesta dimensione e di corto respiro, cumulativamente prese risultano in un esito sub-ottimale e moralmente inaccettabile perché reca ad “innocenti” conseguenze cattive.

Va da sé che in casi del genere la mano invisibile finisce con il funzionare in modo perverso, perché la serie di decisioni individualmente razionali cambia in senso negativo il contesto in cui verranno operate le scelte successive, fino al punto in cui le alternative che si sarebbero desiderate risultano irreversibilmente distrutte. In queste condizioni, il modello tradizionale individualistico della responsabilità fondato sulla colpa non è più applicabile, come scritto in precedenza, tanto che c’è chi vorrebbe farne a meno del tutto. Ma ciò sarebbe un potente “non sequitur” logico, per la semplice ragione che anche se gli attori reali dei macro-processi sono spesso sconosciuti o invisibili, ciò non implica che non esistano. Proprio perché ci ha resi più interdipendenti, meglio informati, più capaci di realizzare forme di mutuo aiuto, la globalizzazione esige forme nuove e più robuste di responsabilità da parte degli attori. La responsabilità tende a trasformarsi in corresponsabilità, che non va intesa come sommatoria delle responsabilità individuali, ma richiede che gli agenti economici siano considerati come membri di una comunità di cooperazione di estensione planetaria.

Siamo oggi di fronte ad uno dei tanti paradossi della globalizzazione, che mentre espande l’area della responsabilità personale, al tempo stesso facilita la mutua deresponsabilizzazione. Ciò avviene perché la globalizzazione ha reso le catene causali assai più lunghe di prima e così i partecipanti al mercato globale si rifiutano di assumersi una responsabilità personale per i risultati collettivi, scegliendo di nascondersi dietro l’anonimato di gruppo.

 

Teoria preponderante oggi e futuri sviluppi

È certamente possibile, ma non facile. E ciò per la ragione che è ancora diffusa e tacitamente accolta la tesi della doppia moralità. Nel 1968, l’economista americano Albert Carr pubblica un saggio destinato a fare scuola, diventando, di fatto, una sorta di guida obbligata per chi si dedica alla finanza. Il titolo stesso è rivelatore: “Is business bluffing ethical?”. Vi si legge che l’uomo d’affari che ambisce al successo deve lasciarsi guidare da “un diverso insieme di standard etici” dal momento che “l’etica degli affari è l’etica del gioco [d’azzardo], diversa dall’etica religiosa”. Assimilando la finanza al gioco del poker – gioco nel quale ciascun giocatore deve cercar di barare al suo rivale, facendogli credere di avere carte che in realtà non ha – Carr conclude che “gli unici vincoli cui deve sottostare chi fa business sono la legalità e il profitto. Se qualcosa non è illegale in senso stretto ed è profittevole allora è eticamente obbligatorio che l’uomo d’affari lo realizzi”. (Sottolineatura aggiunta). Il punto di arrivo dell’argomento è quello di rovesciare la ben nota Regola Aurea, un rovesciamento che suonerebbe all’incirca così: “Fai agli altri quello che non vorresti che gli altri facessero a te”. Scrive, infatti, il nostro: “La regola aurea, per quanto abbia meriti come ideale per la società, non va bene come guida per gli affari. Per buona parte del suo tempo, l’uomo d’affari cerca di fare agli altri quello che egli spera gli altri non faranno mai a lui”. (sic!)

Una posizione questa che viene rafforzata da Ladd (1970) quando descrive le organizzazioni formali (tra cui le imprese) come istituzioni in cui “gli interessi e i bisogni degli individui [in esse operanti] devono venire presi in considerazione solo nella misura in cui pongono condizioni operative limitanti. La razionalità organizzativa impone che questi interessi e bisogni non debbano essere considerati come un diritto o sulla base del merito. Se pensiamo ad un’organizzazione come ad una macchina, è agevole capire perché non possiamo ragionevolmente aspettarci che essa abbia una qualche obbligazione morale nei confronti delle persone o che queste ne abbiano nei suoi confronti” (p. 507). Poco più avanti nel testo, in convinto appoggio alla tesi di Carr, si legge: “Per ragioni logiche è improprio aspettarsi che la condotta organizzativa si conformi ai principi ordinari della moralità. Non possiamo e non dobbiamo aspettarci che le organizzazioni formali e i loro rappresentanti quando agiscono nella loro veste ufficiale, siano onesti, coraggiosi o che possiedano integrità morale…Azioni che sono errate in base agli standard morali classici non lo sono per le organizzazioni…se quelle azioni servono gli obiettivi dell’organizzazione” (p. 507).

 È certamente il fenomeno della quarta rivoluzione industriale a costituire, in questo nostro tempo, una delle più urgenti occasioni per ripensare e mettere all’opera il principio di responsabilità. È noto che la rapida diffusione delle c.d. tecnologie convergenti – quelle risultanti dalla combinazione sinergica delle Nanotecnologie, Biotecnologie, Information Technologies, Cognitive sciences; in acronimo NBIC – sta radicalmente modificando non solamente il modo di produzione ereditato dalla società industriale, ma anche le relazioni sociali e la stessa matrice culturale della società. Non sappiamo ancora come le nuove tecnologie del digitale e la cultura che le governa modificheranno l’essenza del capitalismo del prossimo futuro. Sappiamo però che è in atto una seconda “grande trasformazione” di tipo polanyiano con conseguenze di vasta portata sul senso stesso del lavoro umano, oltre che sulla distruzione e creazione di posti di lavoro; sulla separazione tra mercato e democrazia, quale si è andata consumando nel corso dell’ultimo trentennio sull’onda dell’esaltazione dell’idea che fosse possibile espandere l’area del mercato prescindendo dal contemporaneo rafforzamento del principio democratico; sull’impatto dell’intelligenza artificiale (IA) ai fini del successo del progetto transumanista – termine coniato alcuni decenni fa da Julien Huxley. La prima grande trasformazione è quella stupendamente narrata da Karl Polanyi (1944), riferita alle prime due rivoluzioni industriali di fine Settecento e fine Ottocento, rispettivamente).

La promessa di un potenziamento, sia dell’uomo sia della società, che viene dalle tecnologie convergenti del gruppo NBIC dà conto della straordinaria attenzione che la tecnoscienza va ricevendo in una pluralità di ambiti, da quello etico a quello scientifico, da quello economico a quello politico. Quanto è in gioco non è solo il potenziamento delle abilità cognitive dell’uomo o il miglioramento dei modi di controllo delle informazioni e del loro uso a fini produttivi, ma anche la “artificializzazione” dell’uomo e, al tempo stesso, l’antropomorfizzazione della macchina. Si può così comprendere perché, di fronte a scenari del genere, la nozione di responsabilità come imputabilità non sia sufficiente a guidare l’azione dei decisori, pubblici e privati. Piuttosto, occorre applicarsi per tradurre in pratica la nozione di responsabilità come prendersi cura.

 

Riferimenti bibliografici

  • Carr A.Z. (1968), “Is business bluffing ethical?”, Harvard Business Review, January 1968.
  • Ladd J. (1970), “Morality and the idea of rationality in formal organizations”, The Monist, 54(4), 488-516.
  • Polanyi K. (1944), The Great Transformation, New York, Farrar & Rinehart (trad. it. La grande trasformazione, Bologna, Biblioteca Einaudi, 2000).

 

Suggerimenti di lettura

  • Zamagni S. (2019), Responsabili. Come civilizzare il mercato, Bologna, Il Mulino.

 

* Contenuto della voce adattato da Zamagni S. (2019), Responsabili. Come civilizzare il mercato, Bologna, Il Mulino.

Stefano Zamagni
Stefano Zamagni è stato professore ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna (Facoltà di Economia) ed è Adjunct Professor of International Political Economy alla Johns Hopkins University, SAIS Europe. È membro del comitato scientifico di numerose riviste economiche e dal 2019 è Presidente della Pontificia Accademia di Scienze Sociali. È autore inoltre di numerose pubblicazioni - libri, volumi editati, saggi - di carattere scientifico e di contributi al dibattito culturale e scientifico.

Progetto realizzato da

Fondazione Ermanno Gorrieri per gli studi sociali

Con il contributo di

Fondazione Cassa di Risparmio di Modena