Debito pubblico
Definizione
Il debito pubblico è costituito dalle passività che uno stato sovrano ha nei confronti di coloro che gli hanno fatto prestiti. Il debito si crea per finanziare il disavanzo, cioè la differenza tra uscite e entrate dello stato. Il debito pubblico può anche essere definito come la somma algebrica, in un dato istante del tempo, dei saldi di bilancio che, anno dopo anno, lo stato ha creato dalla sua origine al momento presente. Non c’è stato senza debito. Esso può assumere diverse forme: titoli a breve termine (il c.d. debito fluttuante con scadenza entro un anno, come i Bot a tre 3, 6 e 12 mesi), obbligazioni a più lungo termine 3, 5, 10, 30 anni, al limite senza scadenza (c.d. debito irredimibile o consolidato). In ogni caso su tali titoli lo stato si impegna al pagamento di interessi, predefiniti all’emissione, e al rimborso del prestito alla scadenza.
Se uno stato è sovrano - vale a dire se ha il pieno controllo della creazione della moneta in circolazione, che in questa fase storica è su base fiduciaria - il disavanzo pubblico può essere finanziato anche con l’emissione di moneta – una sorta di debito pubblico senza interessi - attraverso i canali, regolati dalla legge, che definiscono il rapporto tra il governo dello stato e la Banca centrale. Questa infatti, per quanto solitamente dotata di una certa indipendenza, è comunque un’istituzione regolata da leggi e quindi dipendente dal potere politico del Paese.
Il debito pubblico è un onere per un Paese?
Il debito pubblico è un onere per un Paese? In che senso lo è? Sarebbe meglio non esistesse? In particolare è un onere per le generazioni future, che nascono gravate da un debito non contratto da loro e su cui dovranno pagare interessi e alla fine rimborsarlo?
Oggi potrà sembrare controcorrente affermarlo, ma, in condizioni di normale funzionamento di un sistema finanziario, il debito pubblico ha una funzione positiva: esso consente l’attuazione di politiche stabilizzazione in caso di fasi cicliche negative; permette di finanziare più agevolmente, progetti di investimento che si spera possano produrre effetti positivi nel tempo e, soprattutto, rappresenta una forma sicura di impiego del risparmio, di norma più sicura di ogni altra (depositi bancari, obbligazioni private o azioni), grazie alla maggiore solvibilità dello Stato rispetto ad altri operatori economici, come banche o imprese, o alla natura meno rischiosa del prestito obbligazionario rispetto all’impiego in azioni.
L’onere del debito è rappresentato dagli interessi che devono essere pagati ai sottoscrittori. Un Paese indebitato rispetto a uno meno indebitato, a parità di servizi pubblici offerti, dovrà prima o poi imporre ai propri cittadini una pressione tributaria più elevata, pari all’onere del debito misurato dal rapporto tra spesa per interessi e prodotto interno lordo.
È importante comprendere che, una volta creato, il debito pubblico è sostanzialmente un processo di redistribuzione tra chi riceve interessi (chi ha investito i propri risparmi in titoli pubblici) e chi li paga (il contribuente). In larga parte i due soggetti, sottoscrittori e contribuenti, coincidono, anche se non ne hanno sempre consapevolezza. Non è vero, come spesso si dice, che ogni neonato in Italia nasca con un fardello di circa 40 mila euro di debito sulle spalle; vi saranno anche neonati i cui genitori posseggono titoli pubblici dello stesso ammontare. È vero invece che alcuni dei neonati saranno gravati da imposte per pagare gli interessi a qualche loro concittadino che possiede titoli di stato, in molti casi ereditato dai propri genitori.
Si obietta che la redistribuzione sopra citata sia illuminante solo se il debito è interno, cioè sottoscritto da connazionali. Non è così: si dimentica che, a differenza che per quello interno, nel caso di debito sottoscritto da stranieri, il Paese che si indebita riceve, alla sottoscrizione, un apporto addizionale di capitale che, se è ben utilizzato, dà rendimenti in grado di pagare gli interessi all’estero. Il debito è un onere se è stato usato male, per una guerra, o in modo improduttivo, come finanziamento di spese di consumo anche in momenti in cui non vi sarebbe bisogno per ragioni anticicliche di un aumento della domanda aggregata. Inoltre le nuove generazioni non devono dimenticare che gran parte della ricchezza è trasmessa per via ereditaria.
Se non è un problema, il debito può allora aumentare senza limiti?
No, un debito tendente all’infinito genera prima o poi il fallimento dello stato. Nessuno si fiderà a rinnovare titoli emessi alla scadenza. In caso di finanziamento monetario, oltre certi limiti, può essere compromessa la fiducia nella moneta, che come detto è creata dallo stato, ed è in genere su base fiduciaria. Ma non sappiamo quale sia il rapporto ottimale tra passività di una economia (dello Stato, ma non solo dello Stato) e prodotto nazionale. Né esiste una regola che definisca se il rapporto debito/Pil sia troppo alto o troppo basso. Si possono solo definire le condizioni in cui il rapporto debito/Pil nel corso del tempo divenga instabile e, in particolare, tenda a diventare sempre più grande. Il rapporto debito/Pil si stabilizza sicuramente ad un valore finito, per qualunque valore del saldo primario, se il tasso di crescita del Pil nominale (il denominatore del rapporto) è maggiore del tasso di interesse che si paga in media sul debito pubblico. Un valore finito, che può essere basso, ma potrebbe anche essere molto, troppo alto.
Se il tasso di crescita del Pil nominale è stabilmente inferiore al tasso di interesse nominale che grava sul debito, il rapporto debito/Pil cresce e può essere stabilizzato solo con appropriati avanzi primari, cioè una differenza positiva tra entrate e spesa pubblica (al netto degli interessi passivi).
Per l’Italia qual è la situazione?
A fine 2019 il rapporto debito/Pil era pari al 135,7 % del Pil, un valore elevato rispetto ad altri Paesi (esclusi, ad es., Grecia e Giappone), il valore più alto dal dopoguerra (ma è stato anche più elevato in passato). L’onere del debito, misurato come detto dalla spesa per interessi su Pil, è dell’ordine del 3,6% il valore più basso degli ultimi 40 anni (aveva raggiunto il 12,7% nel 1993). Ciò è dovuto soprattutto al fatto che i tassi di interesse sono in questo periodo prossimi allo zero o addirittura negativi, ma anche ad una politica di avanzi primari molto severa adottata dal nostro Paese, imposta dalle regole del Patto di stabilità e crescita. Dal 1990, con esclusione del solo 2009 l’anno più nero della grande crisi, l’Italia ha sempre realizzato saldi primari positivi, insufficienti tuttavia, a causa del crollo del Pil reale e della bassa inflazione, a ridurre, dopo la crisi, il peso del debito sul Pil nominale. Ora, per mantenere stabile il rapporto debito/Pil, con ragionevoli ipotesi di costo del debito e crescita del Pil nominale, basterebbe realizzare un avanzo primario intorno all’1,5% del Pil.
Questa situazione non è insostenibile. Resta vero che la spesa per interessi, pur molto diminuita, è di circa 2 punti più elevata di quella dei Paesi più importanti europei. In altre parole: a causa del debito che si è creato in passato (anni ‘80 del secolo scorso, in Italia, a parità di spesa in servizi pubblici si deve sopportare una pressione fiscale di circa due punti superiore a quella degli altri Paesi. Spiacevole, ma non drammatico. D’altro canto, è semplicemente assurdo pensare che un Paese come l’Italia (che ha una bilancia dei pagamenti corrente attiva, una posizione netta sull’estero di assoluta tranquillità) possa essere annoverato tra Paesi il cui debito pubblico sia a rischio di default.
Perché allora il debito è visto come il problema dei problemi del nostro Paese? La ragione principale ha a che fare con le caratteristiche del sistema monetario dell’euro, anomalo rispetto a quello di altri Paesi. Esso ha associato all’assoluta indipendenza della Banca centrale - vincolata al solo obiettivo del controllo dell’inflazione inferiore al 2% (e non anche a obiettivi di crescita) - regole fiscali (il Patto di Stabilità e Crescita - PSC) che impongono limiti al disavanzo e alla dinamica del debito che dovrebbe tendere al valore, privo di ogni fondamento razionale, del 60% del Pil, e, soprattutto, la regola (in parte, anche se tardivamente e temporaneamente aggirata da Draghi dal 2012 in poi) secondo cui la Banca centrale non può comperare direttamente titoli del debito dei Paesi membri (no bail out). E ciò a differenza di tutti i sistemi monetari di Paesi sovrani in cui Stato/banca centrale forniscano una piena garanzia alla solvibilità del debito pubblico in essere. La presenza di queste regole rese sempre più complesse e poco trasparenti, soprattutto negli anni successivi alla grande crisi, mostra con chiarezza l’assenza di sufficiente grado di condivisione dei rischi presente nell’Unione monetaria europea. Inoltre la loro mera esistenza, in un contesto di mercati finanziari altamente deregolamentati e terreno di continue attività speculative, accentua l’instabilità del sistema e pone sotto ricatto del c.d. “mercati” i Paesi meno “virtuosi” della media, anche se sostanzialmente solvibili.
Meglio avere un debito/PIl più basso, come suggeriscono molti osservatori? Non c’è dubbio, ma come realizzare l’obiettivo? Anzitutto quale sarebbe esattamente l’obiettivo: di quanto sarebbe necessario ridurre il debito? Impossibile dirlo. Si sappia però che per arrivare ad un debito pari al 100% del PIl sarebbe necessaria rimborsare 600 miliardi di titoli. Non è pensabile un’imposta straordinaria di tale dimensione. Ridurre il rapporto debito/Pil in assenza di inflazione e/o crescita reale elevata non è facile. Richiederebbe creare avanzi primari molto elevati, dell’ordine del 4% per molti anni, cioè una politica di austerità feroce incompatibile con la possibilità di investimenti pubblici e la disponibilità di risorse per sostenere la domanda e migliorare la capacità produttiva del Paese. In ogni caso, anche dopo un tale sforzo, il rapporto debito/Pil resterebbe superiore all’obiettivo del PSC e probabilmente tra i più elevati dei Paesi europei. Non servirebbe quindi a placare “i mercati”.
Una soluzione migliore sarebbe quella di evitare, prudentemente, una sua crescita e realizzare al più presto una riforma del sistema monetario europeo, in cui prevalga, come ci si aspetta da un’unione monetaria, la condivisione dei rischi, modificando i trattati dell’UM, riformulando gli obiettivi alla banca centrale (stabilità monetaria ma anche crescita), allentando se non addirittura abolendo il Patto di stabilità. Meccanismi di decisione politica dovrebbero avere il compito di risolvere casi devianti, che comunque non dovrebbero preoccupare ora, dato che il debito europeo nel suo complesso non ha dimensioni elevate e non sono particolarmente rilevanti oggi i timori di contagio che hanno suggerito agli albori dell’euro la regola del no bail out.
La probabilità che riforme in questa direzione possano essere attuate è però praticamente nulla a causa dell’opposizione della Germania e dei Paesi del nord a cui l’Europa ha più strettamente legato le proprie sorti economiche nell’ultimo ventennio. La previsione più attendibile è quindi che un Paese come l’Italia non avrà la possibilità - posto che disponga di una classe politica consapevole e capace - di mettere in atto riforme che possano sottrarla ad una situazione di cronica stagnazione. E la causa di questo destino poco attraente non sarà, principalmente, il debito pubblico.
Suggerimenti di lettura
- Celi G., A. Ginzburg, D. Guarascio e A. Simonazzi (2020, a cura di), Una unione divisiva. Una prospettiva centro-periferia della crisi europea, Bologna, Il Mulino.
- Matteuzzi M. e A. Simonazzi (1988, a cura di), Il debito pubblico, Bologna, Il Mulino.