Glossario

Il "Glossario delle disuguaglianze sociali" mira a realizzare una raccolta di voci specificamente dedicate alla problematica delle disuguaglianze economiche e sociali, nella prospettiva di uno strumento di conoscenza e di informazione di base, durevole e continuativo. Le voci presenti sul portale - curate da professori, ricercatori ed esperti sui temi di interesse del Glossario - rappresentano il solido inizio di un progetto sempre attivo e in continua espansione. Pertanto, se pensi che sia ancora assente nel Glossario qualche argomento di rilevo nello studio delle disuguaglianze sociali, non esitare a segnalarcelo (glossario@fondazionegorrieri.it).

Politiche per ridurre il gender gap

Scritto da: Salvatore Lattanzio

 

Premessa

Le differenze di genere permeano il tessuto sociale, economico e politico. Secondo il Global Gender Gap Report 2020 il gender gap globale è pari al 31,4 percento. L’Italia ha molta strada da fare, dal momento che si colloca al 76° posto su 153 paesi nella classifica sull’uguaglianza di genere.

Le differenze di genere possono riguardare più ambiti. Il World Economic Forum ne individua quattro: partecipazione e opportunità economiche, livello di istruzione, salute e partecipazione politica. L’Italia occupa una posizione particolarmente bassa nella classifica internazionale dal punto di vista della partecipazione economica e politica, mentre la parità nella salute e nei livelli di istruzione è pressoché assoluta. Data questa premessa, in questa nota il focus sarà sulle politiche pubbliche per ridurre le differenze di genere nella partecipazione economica, in particolare nel mercato del lavoro, e nella partecipazione politica (per una rassegna esaustiva, si veda Olivetti e Petrongolo, 2017).

 

Le politiche pubbliche per ridurre le differenze di genere nel mercato del lavoro

Le politiche per ridurre il gender gap nel mercato del lavoro hanno l’obiettivo di favorire la partecipazione delle donne alla forza lavoro e ridurre il divario salariale tra uomini e donne. Gli interventi possono variare e avere come obiettivo l’eliminazione degli ostacoli materiali all’avanzamento delle donne nel mercato del lavoro o agire su fattori culturali che precludono alle donne opportunità uguali a quelle riservate agli uomini. Quello che segue è un elenco dei principali strumenti di policy ai quali si è ricorso negli anni per contrastare le disuguaglianze di genere.

 

Congedo parentale

Allo scopo di eliminare un ostacolo “materiale” è stato introdotto in numerosi paesi avanzati il congedo parentale, ossia un periodo di assenza dal lavoro per assolvere ai compiti di cura collegati alla nascita di un figlio. Il congedo parentale può essere riservato alla madre, al padre o a entrambi i genitori, e può essere obbligatorio o facoltativo. La durata del periodo di congedo varia considerevolmente tra paesi. Tra i paesi OCSE, gli Stati Uniti sono l’unico a non prevedere un congedo di maternità obbligatorio e retribuito. In Italia, il congedo di maternità obbligatorio ha una durata pari a 5 mesi (generalmente suddivisi nei 2 mesi antecedenti alla nascita del figlio e ai 3 mesi successivi) ed è stato introdotto per la prima volta dalla legge 1204 del 1971 (successivamente modificata nel 1977 e profondamente rivista e inserita in un quadro più ampio dal d.lgs. 151/2001). Il congedo di maternità ha l’obiettivo di fornire protezione dell’impiego alle donne che ne fanno uso e allo stesso tempo di fornire un’indennità pari a una proporzione del salario percepito (in Italia, per il congedo di maternità obbligatorio l’indennità è fissata all’80 percento dell’ultima retribuzione). È previsto poi un congedo parentale facoltativo della durata massima di 6 mesi che può essere condiviso da entrambi i genitori fino al compimento di 12 anni del figlio (ma solo fino al compimento di 8 anni il congedo prevede un’indennità pari al 30% dell’ultima retribuzione).

Un possibile effetto indesiderato del congedo parentale riservato alle madri consiste nel rischio di rendere la cura dei figli una prerogativa esclusivamente femminile, rafforzando meccanismi di discriminazione statistica da parte dei datori di lavoro che potrebbero rallentare l’avanzamento di carriera delle donne (si veda, ad esempio, Albanesi e Olivetti, 2009).

Per rendere la distribuzione dei compiti di cura più uniforme tra madri e padri, in aggiunta al congedo parentale facoltativo, alcuni paesi prevedono la presenza di un congedo obbligatorio riservato ai padri (OCSE, 2016). In Italia, il congedo obbligatorio per i padri è stato introdotto per la prima volta nel 2012 e, recentemente, esteso a 7 giorni dalla legge di bilancio 2020. La previsione di un congedo riservato ai papà può produrre degli effetti diretti sulla distribuzione del tempo dedicato ai figli all’interno della famiglia, ma anche un effetto indiretto sulla percezione del ruolo della donna nella cura dei figli. In particolare, quest’ultimo effetto sembra avere delle conseguenze benefiche sulla partecipazione femminile al mercato del lavoro nel lungo periodo. Le esperienze provenienti da altri paesi indicano inoltre come il congedo di paternità sia associato a una maggiore partecipazione degli uomini ai compiti di cura, a migliori risultati scolastici dei bambini e a un ribilanciamento dei carichi di lavoro domestico nella coppia (Casarico e Profeta, 2015).

 

Servizi per l’infanzia

Nell’ottica di facilitare il ritorno al lavoro delle madri dopo la nascita di un figlio e di rendere più agevole la conciliazione tra lavoro e famiglia, la disponibilità di servizi di cura quali asili nido e scuole per l’infanzia è fondamentale. L’evidenza internazionale mette in luce una robusta correlazione positiva tra la disponibilità di servizi di cura per l’infanzia e la partecipazione femminile alla forza lavoro (Vuri, 2016). In Italia, la correlazione è altrettanto evidente: sulla base dei dati Istat, la Figura 1 mette in relazione il tasso di occupazione femminile con il numero di posti autorizzati per i servizi per la prima infanzia (pubblici e privati) nel 2017. Il grafico evidenzia come le regioni con maggiore capillarità di servizi per l’infanzia sono anche quelle con maggiore partecipazione femminile alla forza lavoro. Naturalmente, la correlazione non implica causalità, ma le evidenze anche per il mercato del lavoro italiano indicano che la disponibilità di servizi per la prima infanzia ha un impatto causale positivo sull’occupazione femminile (Carta e Rizzica, 2018).

 

Figura 1. Tasso di occupazione femminile e servizi per la prima infanzia, 2017

Note: Elaborazione dell’autore su dati Istat.

 

Quote di genere

Una politica pensata per abbattere il “soffitto di cristallo” è l’introduzione di quote di genere nei consigli di amministrazione delle società quotate. Infatti, sebbene i divari di genere nel mercato del lavoro siano considerevolmente diminuiti, le donne sono ancora scarsamente rappresentate ai vertici delle gerarchie aziendali. Per ovviare a questo problema, numerosi paesi hanno deciso di introdurre l’obbligo di riservare una quota dei posti in consiglio di amministrazione al genere meno rappresentato. In Italia, la legge 120/2011 prevede che non meno di un terzo dei membri del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale delle società quotate e delle società a partecipazione pubblica sia riservato al genere meno rappresentato. La legge aveva una durata di tre mandati (i CdA vengono rinnovati solitamente ogni tre anni), ma è stata recentemente estesa dalla legge di bilancio 2020 (che aumenta l’obbligo di rappresentanza al 40 percento). L’introduzione delle quote ha avuto un effetto positivo sulla rappresentanza femminile nei CdA delle società quotate italiane, ma non ha cambiato significativamente la quota di donne tra i presidenti e gli amministratori delegati, come evidenziato dalla Figura 2. Inoltre, le quote hanno avuto pochi effetti a cascata per le lavoratrici nei ranghi più bassi della gerarchia aziendale (Maida e Weber, 2019), ma hanno avuto un effetto positivo sul potere negoziale delle lavoratrici nella fase di contrattazione salariale (Casarico e Lattanzio, 2019). Effetti positivi sono stati dimostrati anche su altri indicatori di performance (Ferrari et al., 2018).

 

Figura 2. Proporzione donne tra i consiglieri di amministrazioni, amministratori delegati e presidenti delle società quotate italiane, 2008-2018

Note: Elaborazione dell’autore su dati Consob.

 

Obblighi di reporting

La riduzione dei divari di genere passa anche da una maggiore consapevolezza delle imprese. A questo scopo alcuni paesi hanno adottato politiche che obbligano le imprese a comunicare informazioni sulle retribuzioni e l’occupazione di uomini e donne. Il rafforzamento degli obblighi di reporting ha l’obiettivo di incentivare le imprese ad assumere maggiore consapevolezza sulla propria struttura occupazionale e di retribuzione in un’ottica di genere e allo stesso tempo evidenziare eventuali fenomeni discriminatori. Gli esempi internazionali non mancano: Regno Unito, Danimarca, Svizzera, Francia e Austria sono alcuni dei paesi che obbligano le imprese oltre una certa soglia dimensionale a comunicare dati sulla situazione del personale maschile e femminile. L’Italia si è dotata di un Codice delle pari opportunità (d.lgs. 198/2006), che a sua volta riprende ed estende la legge 191/1991 e che prevede l’obbligo di redazione per le imprese con più di 100 dipendenti di un rapporto almeno biennale sulla situazione del personale maschile e femminile e sulle retribuzioni. Le previsioni del Codice delle pari opportunità non sembrano però avere avuto un impatto significativo sul divario retributivo di genere, come evidenziato dalla Figura 3, che riporta il divario di genere nei salari giornalieri nelle imprese con meno e con più di 100 dipendenti tra il 1990 e il 2016: il grafico mostra che le due serie non hanno evoluzioni differenti. Più di recente, il d.lgs. 254/2016 sulla rendicontazione non finanziaria obbliga le imprese con più di 500 dipendenti a presentare una relazione sui risultati della gestione non finanziaria, tra cui le misure per la parità di genere. Su questa misura di policy non ci sono ancora evidenze, ma è forse improbabile aspettarsi un impatto sui divari di genere dal momento che molta libertà è lasciata alle imprese sui contenuti e sulle modalità di redazione del rapporto. Tuttavia, se rafforzato, l’obbligo di reporting può generare effetti positivi sull’uguaglianza di genere, dal momento che le imprese contribuiscono con le proprie politiche salariali al divario retributivo di genere, come mostrato per il caso italiano da Casarico e Lattanzio (2019).

 

Figura 3. Evoluzione del divario di genere nei salari giornalieri full-time equivalent per classe dimensionale dell’impresa (51-100 dipendenti e 101-200 dipendenti)

Note: Elaborazione dell’autore su dati Inps.

 

Smart-working

La diversa preferenza di uomini e donne per la flessibilità oraria è uno degli elementi che contribuiscono alle differenze di genere. Da un lato, le donne tendono a scegliere impieghi part-time e che offrono remunerazioni inferiori, per le esigenze di conciliare famiglia e lavoro e per assolvere ai compiti di cura familiari (Blau e Kahn, 2017). Dall’altro lato, proprio il maggiore carico di lavoro domestico impedisce alle donne di lavorare orari “lunghi” o inusuali. Questa impossibilità determina una penalità nelle prospettive di carriera che, secondo Goldin (2014), rappresenta l’ultimo ostacolo per abbattere il soffitto di cristallo. Fornire più flessibilità sull’orario e sul luogo di lavoro potrebbe dunque aiutare le lavoratrici nella conciliazione delle esigenze lavorative e familiari. Un recente studio di Angelici e Profeta (2020) mette in evidenza come lo smart working può avere effetti benefici per le donne e per la produttività aziendale.

 

Le politiche pubbliche per ridurre le differenze di genere in politica

I divari di genere non si limitano alla sola sfera del lavoro. Le donne partecipano meno anche alla competizione e alla vita politica. La rappresentanza femminile nei parlamenti nazionali dell’Unione Europea a 28 stati è pari al 32,3 percento. Un dato che scende al 30,8 percento tra i ministri dei governi nazionali e al 10,7 percento tra i capi di stato e di governo (fonte: EIGE). Anche a livello locale, le donne sono rappresentate meno degli uomini. In Italia, le donne costituiscono il 39,1 percento degli assessori comunali, il 31,7 percento dei consiglieri e solo il 14 percento dei sindaci (fonte: anagrafe degli amministratori locali, Ministero dell’Interno). L’assenza delle donne nei ruoli di decisori politici può comportare un deficit di attenzione verso le loro preferenze elettorali, politiche e di impiego delle risorse pubbliche, che una corposa evidenza ha dimostrato essere diverse da quelle maschili (si veda, per esempio, Aidt e Dallal, 2008). Di seguito si riportano due esempi di policy che hanno l’intento di correggere questa distorsione.

 

Quote di genere nelle liste dei candidati

Uno strumento per favorire la partecipazione delle donne alla competizione politica è l’utilizzo delle quote di genere nelle liste dei candidati. In Italia, le quote di genere sono state previste per la prima volta dalla legge 81/1993 per le elezioni amministrative. La legge prevedeva che non più dei due terzi dei candidati poteva essere rappresentato da un solo genere. L’esperimento ha avuto breve durata, dal momento che la Corte Costituzionale ha abolito le quote nel 1995. L’introduzione delle quote ha comunque aumentato la presenza femminile nei consigli comunali (De Paola et al., 2010) e ha migliorato la qualità dei politici eletti, non solo per il maggior numero di donne elette – che in media hanno tassi di istruzione più elevati dei politici maschi – ma anche per via di una migliore selezione degli eletti uomini, che sono risultati mediamente più istruiti (Baltrunaite et al., 2014). Le quote di genere sono state poi reintrodotte nel 2012 (legge 215/2012) solo nei comuni con più di 5000 abitanti, generando un aumento del 18 percento nel numero di consiglieri donna eletti (Baltrunaite et al., 2019). Inoltre, la legge elettorale nazionale (legge 165/2017), nella sua ultima revisione, prevede quote di genere nei collegi uninominali e nei capilista dei collegi plurinominali (nessun genere può eccedere il 60 percento dei candidati), combinate con l’alternanza di genere nelle liste dei candidati nei collegi plurinominali.

 

Doppia preferenza di genere

Insieme alle quote di genere nelle liste dei candidati, la legge 215/2012 prevedeva anche l’obbligo di esprimere preferenze per candidati di genere diverso (una disposizione poi estesa anche ad alcune leggi elettorali regionali e alla legge elettorale per l’elezione del Parlamento europeo). Baltrunaite et al. (2019) mostrano come l’incremento della rappresentanza femminile tra i consiglieri comunali sia in parte dovuto all’aumento delle preferenze espresse per i candidati di sesso femminile. Inoltre, l’introduzione della doppia preferenza di genere ha generato un’esternalità positiva anche in altre tornate elettorali, che hanno visto aumentare il numero di donne elette solo nei comuni interessati dalla legge del 2012.

 

Riferimenti bibliografici

  • Aidt, T. S. e B. Dallal (2008), “Female voting power: the contribution of women’s suffrage to the growth of social spending in Western Europe (1869–1960)”, Public Choice, 134, 391-417.
  • Albanesi S. e C. Olivetti (2009), “Home production, market production and the gender wage gap: Incentives and expectations”, Review of Economic Dynamics, 12, 80-107.
  • Angelici M. e P. Profeta (2020), “Smart-working: Work Flexibility Without Constraints.” Dondena working paper, 137.
  • Baltrunaite A., P. Bello, A. Casarico, e P. Profeta (2014), “Gender quotas and the quality of politicians”, Journal of Public Economics, 118, 62-74.
  • Baltrunaite A., A. Casarico, P. Profeta, e G. Savio (2019), “Let the voters choose women”, Journal of Public Economics, 180, 104085.
  • Carta F. e L. Rizzica (2018), “Early kindergarten, maternal labor supply and children's outcomes: Evidence from Italy”, Journal of Public Economics, 158, 79-102.
  • Casarico A. e S. Lattanzio (2019), “What Firms Do: Gender Inequality in Linked Employer-Employee Data”, Cambridge Working Papers in Economics 1966, Faculty of Economics, University of Cambridge.
  • De Paola M., V. Scoppa, e R. Lombardo (2010), “Can gender quotas break down negative stereotypes? Evidence from changes in electoral rules”, Journal of Public Economics, 94, 344-353
  • Ferrari G., V. Ferraro, P. Profeta e C. Pronzato (2018), “Do Board Gender Quotas Matter? Selection, Performance and Stock Market Effects.” IZA Discussion Paper, 11462.
  • Maida A. e A. Weber (2019), “Female Leadership and Gender Gap within Firms: Evidence from an Italian Board Reform”, IZA Discussion Paper, 12099.

 

Suggerimenti di lettura

  • Blau F. D. e M. K. Lawrence (2017), “The Gender Wage Gap: Extent, Trends, and Explanations”. Journal of Economic Literature, 55(3), 789-865.
  • Casarico A. (2019), “Women in politics: why so few and what to do about it”, The gender gap: a problem that needs to be solved, IEB Report, 4/2019, University of Barcelona.
  • Casarico A. e P. Profeta (2010), “Donne in attesa. L’Italia delle disparità di genere”, EGEA.
  • Casarico A. e P. Profeta (2015), “Perché servono i congedi di paternità”, lavoce.info.
  • Goldin C. (2014), “A Grand Gender Convergence: Its Last Chapter”, American Economic Review, 104 (4), 1091–1119.
  • Hessami Z. e M. L. da Fonseca (2020), “Female Political Representation and Substantive Effects on Policies: A Literature Review”, CESifo Working Paper, 8155.
  • OECD (2016), “Parental leave: Where are the fathers?”, Policy brief.
  • Olivetti C. e B. Petrongolo (2017), “The Economic Consequences of Family Policies: Lessons From a Century of Legislation in High-Income Countries”, Journal of Economic Perspective, 31 (1), 205–230.
  • Vuri, D. (2016), “Do childcare policies increase maternal employment?”, IZA World of Labor 2016, 241.
Salvatore Lattanzio
Salvatore Lattanzio sta svolgendo un dottorato di ricerca in economia all'Università di Cambridge. Si interessa di temi legati alla disuguaglianza nel mercato del lavoro. Ha conseguito la laurea magistrale in Economic and Social Sciences, e precedentemente la laurea triennale in Economia e Finanza, presso l’Università Bocconi.

Progetto realizzato da

Fondazione Ermanno Gorrieri per gli studi sociali

Con il contributo di

Fondazione Cassa di Risparmio di Modena