Giudice conciliatore
Il contenzioso laburistico. Criticità e primi interventi*
Le difficoltà nelle quali si trova il nostro sistema della giustizia sono ben note. Tuttavia, l’area della giustizia del lavoro registra una particolare sofferenza, in ragione delle delicate posizioni sostanziali di cui essa è chiamata ad occuparsi e dei continui interventi modificativi che spesso disorientano le parti in causa (Treu, 2003).
Il contenzioso arretrato, soprattutto previdenziale e assistenziale, non può più essere considerato un problema contingente: le caratteristiche stesse della società moderna e un diritto del lavoro sempre più propenso nella direzione della flessibilizzazione e della moltiplicazione delle tipologie contrattuali, non fanno altro che accrescere le occasioni di potenziali controversie.
Non stupiscono, quindi, le denunce, da parte dell’Unione Europea, circa i ritardi della giustizia italiana, anche del lavoro, quale ostacolo alla tutela dei diritti della parte più debole, tradizionalmente il lavoratore, ma non solo. Il Libro Verde del 2002 evidenziava, tra l’altro, la necessità per gli Stati Membri di porre mano alle problematiche connesse al funzionamento e ai tempi della giustizia del lavoro non solo attraverso una riforma del processo del lavoro idonea a renderlo più celere, ma anche incentivando forme alternative di risoluzione delle controversie (Commissione europea, 2002).
L’obiettivo perseguito era quello di attuare riforme processuali, ordinamentali ed organizzative funzionali alla strumentalità del processo e, con essa, alla tutela giurisdizionale effettiva per i diritti dei lavoratori. Il tutto, affiancati da pratiche organizzative virtuose.
Tali propositi condussero il legislatore a predisporre una serie di interventi anche sulle disposizioni e procedure già in vigore incidenti direttamente o indirettamente sul funzionamento di un effettivo e snello processo del lavoro: la riunione di cause, i rapporti tra rito del lavoro ordinario e rito fallimentare, la valorizzazione del rito monitorio, la riduzione dei termini lunghi di impugnazione delle sentenze. E ancora: le modifiche apportate all’interno del processo in tema di onere probatorio, la codificazione di princìpi affermati dalla recente giurisprudenza di legittimità in ordine alla valorizzazione della oralità, degli artt. 414 e 416 c.p.c., e alla delimitazione dell’acquisizione di nuove prove in appello. Il tutto unitamente a un ridimensionamento dei motivi di ricorso per cassazione, al fine di rafforzare in capo alla Corte di legittimità la sua naturale funzione nomofilattica.
La reintroduzione della facoltatività del tentativo di conciliazione ha portato con sé un irrigidimento della procedura, che contrappone le parti in modo non molto diverso rispetto a quanto accade nel corso del procedimento ordinario. Per esempio, obbligando le parti a redigere una serie di atti che rievocano quelli giudiziari e ponendo tutta una serie di conseguenze negative a carico delle stesse in caso di scelta di non concludere l’accordo pur avendo avviato la procedura.
Gli strumenti alternativi al giudizio si diffondono se si presentano come concretamente “alternativi”, distinguendosi dal giudizio stesso. Le caratteristiche peculiari della via stragiudiziale dovrebbero riguardare informalità e fluidità della procedura, sia che si tratti del mezzo conciliativo, sia che si tratti di quello arbitrale.
Il senso contrario spesso intrapreso dal legislatore conduce le parti ad affidarsi alle procedure di origine contrattuale piuttosto che a quelle disciplinate dalla legge. Per tale motivo potrebbe auspicarsi un ampliamento del ruolo delle parti sociali nella stessa promozione delle forme di giustizia alternativa e privata. Così facendo, potrebbero trovare applicazione le clausole compromissorie che il Collegato Lavoro del 2010 ha consentito di inserire all’interno dei contratti individuali di lavoro, a condizione della loro previsione da parte dell’autonomia collettiva, nonché del rispetto dei limiti prefissati ex lege. Ne conseguirebbe una diffusione dell’arbitrato, individuato dal legislatore quale mezzo maggiormente idoneo ad affrontare le questioni sorte in determinati settori.
Contratto a tutele crescenti e diritti del lavoratore
Di recente, il favor conciliationis è sempre più evidente in materia di lavoro, e di licenziamento in particolare. Non solo per evitare, per quanto possibile, il processo e la decisione, ma pare anche per assicurare flessibilità in uscita come incentivo all’impiego (Vidiri, 2015; Voza, 2015).
Tuttavia, il perseguire lo scopo della deflazione del contenzioso, come visto, può portare erroneamente a considerare lo strumento conciliativo quale mero filtro di accesso alla giurisdizione. Tale obiettivo non può essere certo perseguito senza adeguati investimenti sulla competenza e professionalità dei conciliatori: non pare sufficiente il solo possesso di nozioni giuridiche, se non accompagnato anche da una adeguata e sperimentata conoscenza delle tecniche di gestione del conflitto e della comunicazione. Ulteriore motivo di ostacolo ad una via conciliativa fluida riguarda l’introduzione di procedure complesse, improntate ad una logica processuale, spesso accompagnate dalla previsione di continue occasioni di interferenza dello strumento conciliativo con il processo ordinario, riconducibili, soprattutto, alle ripercussioni sul piano probatorio, decisionale e di distribuzione delle spese di lite, che il comportamento delle parti nel primo ha nel secondo.
Orbene, l’interprete deve interrogarsi se a fronte di tali innegabili benefici, alle parti sia concessa adeguata tutela. Il che non significa uguale tutela accordata all’interno del processo ordinario: le consistenze difformità procedurali non lo permetterebbero. Ciò che non deve mai mancare, anche nella giustizia privata, è l’obbligo di assicurare una tutela sufficientemente effettiva delle posizioni che trovano il loro fondamento nel diritto interno e nel diritto sovranazionale. Tutela assicurata da disposizioni conformi ai principi cardini della nostra Costituzione.
I vantaggi e le utilità che senz’altro comportano una detassazione, così come l’eliminazione dell’alea, dei tempi e dei costi del giudizio, non sembrano giustificare aspetti conseguenti alla procedura quali la stabilizzazione di un licenziamento illegittimo e la rinuncia ad impugnarlo e, di conseguenza, la perdita del posto di lavoro. Si potrebbe affermare che la scelta del lavoratore è libera e che non vi è alcun obbligo di accettare l’offerta conciliativa del datore di lavoro, ma “la riflessione storica ci mostra che al riparo dalla costrizione giuridica non si è per ciò più liberi”. Del resto, offrire una somma di denaro a chi ha perduto il posto di lavoro, quale principale fonte di sostentamento, irrecuperabile se non affrontando l’incertezza e la lungaggine propria di una controversia giudiziaria, significa non porgli reali alternative. L’intera disciplina del contratto a tutele crescenti rischia di porre il lavoro quale merce di scambio e l’interesse del lavoratore meritevole di ristoro esclusivamente sul piano economico. Ciò è dimostrato anche dal fatto che all’indomani dell’entrata in vigore del cd. Jobs Act, la reintegrazione del lavoratore all’interno dell’azienda è circoscritta a casi eccezionali, sull’assunto secondo cui in caso di scelte imprenditoriale, il licenziamento non lede un diritto fondamentale del lavoratore. Tuttavia, tale affermazione non può che considerarsi in contrasto con gli artt. 1, 2, 4, 24, 35, 76 Cost., in quanto la prestazione lavorativa costituisce senz’altro un momento di realizzazione della personalità del lavoratore, nonché un esercizio di un diritto fondamentale di libertà della persona umana. In questi termini la tutela reale dovrebbe costituire la regola nel nostro ordinamento, non l’eccezione, ponendosi come vera e propria forma principale di effettività adeguata (Dalfino, 2014).
Un possibile valido strumento: valorizzare la conciliazione del giudice del lavoro
La facoltà di scelta del mezzo di tutela giurisdizionale deve accompagnare la parte nel corso di tutto lo svolgimento della lite. Il compito del legislatore, pertanto, dovrà essere quello di perseverare tale diritto, censurando quelle proposte di modifica che altro non farebbero se non rischiare di mercificare la posizione della parte più debole. Le regole processuali servono a questo: a proteggere i diritti del soggetto maggiormente esposto, evitando “scorciatoie” e imponendo un percorso chiaro sotto la guida di un soggetto terzo ed imparziale.
Per tale ragione lo strumento che meriterebbe una seria implementazione e valorizzazione è quello, già esistente ed operante, ma sottovalutato, della proposta di conciliazione che il giudice del lavoro tenta alla prima udienza. L’autorevolezza del luogo, il Tribunale, e del soggetto incaricato nel procedere con la proposta conciliativa, il giudice, offre maggiore possibilità di risultati favorevoli in capo ad entrambe le parti. Il legislatore dovrebbe affidarsi maggiormente a tale strumento, incentivandone un responsabile e serio utilizzo, e magari ampliandone i poteri del giudice conciliatore. Pure se lo strumento dell’arbitrato si presa, senza dubbio meglio di quello conciliativo, a garantire una effettiva tutela alle parti coinvolte, spesso la vincolatività del lodo arbitrale e le regole che reggono il corso del procedimento, non sono sufficienti ad assicurare un pieno rispetto della decisione finale. Inoltre, i continui interventi modificativi che negli anni hanno coinvolto l’istituto, hanno contribuito a renderlo molto costoso e non veramente alternativo al giudizio ordinario quanto ai tempi di svolgimento.
La strada privata rimane una scelta in capo alle parti, ma così regolamentate oggi non sembrano costituire una valida alternativa alla via ordinaria: né sotto il profilo della tempistica, né sotto quello dei costi, e, soprattutto, neppure con riguardo alla effettività della tutela giurisdizionale. Il tentativo di conciliazione proprio del giudice del lavoro, invece, può rappresentarsi come un involucro libero, il cui contenuto può essere una transazione, una rinunzia, un riconoscimento oppure un qualsiasi altro negozio, consacrato in un processo verbale dal quale deve emergere l’incontro delle volontà di entrambe le parti. Il negozio conclusivo sarà, infine, soggetto alla disciplina che gli è propria, essendo irrilevante l’involucro in cui è inserita.
La conciliazione giudiziale di cui all’art. 420, comma 1, c.p.c., nella prassi, si è dimostrato un valido strumento ed una efficace modalità di composizione della lite. Il legislatore, infatti, lasciando ampio margine di valutazione al giudice, consente allo stesso di sovraintendere lo scambio di proposte delle parti, e di proporne una egli stesso sulla base di una sommaria valutazione degli argomenti di lite. Inoltre, durante la conciliazione, al giudice, nel caso di manifesta infondatezza delle pretese attoree, è consentito anche proporre la rinuncia alla causa. Così come formulata, infatti, la conciliazione giudiziale si mostra come mezzo malleabile, adattabile alle diverse esigenze del caso concreto. L’assenza di vincoli particolari consente al magistrato competente di sollecitare una conciliazione nel corso della stessa prima udienza, oppure di rinviare la decisione, anche solo di qualche ora, permettendo alle parti di consultarsi con i propri difensori.
Tale libertà delle forme non è di ostacolo all’effettività della tutela, in quanto al giudice è richiesto lo studio, seppure sommario, degli argomenti di lite in modo da presentarsi alla prima udienza consapevole della eventuale difficoltà della controversia. In caso di esito incerto, per esempio, proporrà una soluzione conciliativa equilibrata, intenta a soddisfare entrambe le pretese. Viceversa, qualora la conclusione della lite si mostri fin da subito come favorevole ad una sola parte, la proposta conciliativa ne terrà conto.
Inoltre, l’utilizzo dello strumento conciliativo in sede giudiziale consente al giudice di rimettere alle stesse parti la qualificazione delle somme contenute del negozio finale: a titolo risarcitorio oppure contributivo.
Che fare, dunque? Forse nulla. Lo strumento della conciliazione giudiziale pare soddisfare molti aspetti propri di una richiesta di tutela giurisdizionale effettiva. In diritto, non sempre la migliore soluzione implica nuovi interventi modificativi della disciplina vigente. È evidente che laddove il legislatore tenta di regolamentare nel dettaglio una procedura, soprattutto in ambito stragiudiziale, il più delle volte la rende complessa e mal coordinata con le altre disposizioni. Viceversa, emerge chiaramente che la conciliazione di cui all’art. 420 c.p.c. è effettiva proprio perché libera nelle forme e nei contenuti. Tale libertà, tuttavia, non può che concedersi alla magistratura togata, e non a meri arbitratori e conciliatori, che rimangono pur sempre soggetti privati, le cui funzioni si ispirano a ben altri principi che a quelli costituzionalmente previsti per i giudici.
Fondere l’animo dello strumento conciliativo con l’autorevolezza del soggetto arbitratore e del luogo, consentirebbe, quindi, non solo di conferire maggiore serietà alle proposte di definizione della lite delle parti, con la consapevolezza che ogni comportamento ingiustificatamente ostile sarà oggetto di seria valutazione nel corso del processo ex art. 116 c.p.c., nonché nella liquidazione delle spese finali, ma anche di offrire adeguata ed effettiva tutela ai diritti che la parte assume come lesi.
Il legislatore del 1942 aveva ben compreso la forza di tale strumento, che meriterebbe più fiducia, nell’ottica per cui l’unica ragion d’essere propria di una comunità civile dovrebbe consistere nel riscoprire “[...] la propensione ad elevare, in bona fide, il livello di attendibilità e veridicità dei processi comunicativi di un’entità complessa e magmatica quale il diritto, che, oltre e più che nelle norme, vive nei discorsi di coloro che quelle norme sono chiamati a far vivere, e progredire, attraverso l’interpretazione” (Del Punta, 2014).
Riferimenti bibliografici
- Commissione Europea (2002), Libro verde relativo ai modi alternativi di risoluzione delle controversie in materia civile e commerciale, 19 aprile.
- Dalfino D. (2014), “Accesso alla giustizia, principio di effettività e adeguatezza della tutela giurisdizionale”, Riv. trim. dir. e proc. civ., 907 ss.
- Del Punta R. (2014), “Il giudice e i problemi dell’interpretazione: una prospettiva giuslavoristica”, Riv. it. dir. lav., III, 373.
- Treu T. (2003), “La riforma della giustizia del lavoro: conciliazione e arbitrato”, Dir. rel. ind., 1/XIII, 78.
- Vidiri G. (2015), “Il licenziamento disciplinare nel primo decreto attuativo del jobs act tra luci e (non poche) ombre”, Arg. dir. lav., 353.
- Voza R. (2015), “‘Gli farò un’offerta che non potrà rifiutare’: l’irresistibile forza deflattiva dell’art. 6, D.Lgs. n. 23/2015”, Lav. giur., 8-9.
Suggerimenti alla lettura
- Calamandrei P. (1937 - 1965), Sul progetto preliminare Solmi, Firenze, ora in Opere giuridiche, vol. I, 307.
- Carnelutti F. (1930 - 1937), “La crisi della legge”, in Riv. dir. pubbl., 170, ora in Discorsi intorno al diritto, Padova, CEDAM.
- Dalfino D. (2015), “La conciliazione in materia di licenziamenti”, in O. Mazzotta (a cura di), Lavoro ed esigenze dell’impresa fra diritto sostanziale e processo dopo il Jobs Act, Torino, Giappichelli, 275.
- Luiso F. P. (2011), Diritto processuale civile, vol. V, Milano, Giuffré.
- Punzi C. (2013), Il processo civile. Sistema e problematiche, Le riforme del quadriennio 2010-2013, Torino, Giappichelli.
- Verde G. (2011), “Il processo sotto l’incubo della ragionevole durata”, Riv. dir. proc., 505.
* Articolo tratto dalla Tesi di Dottorato di ricerca in Lavoro, Sviluppo e Innovazione, Fondazione Universitaria “Marco Biagi” - Università di Modena e Reggio Emilia, di Medea Bertolani, L’effettività delle tutele in materia laburistica, con particolare riguardo ai mezzi alternativi al giudizio, XXX ciclo, 2018.