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Universalismo e selettività

Scritto da: Michele Raitano

 

Classificazione dei trasferimenti

Per quanto concerne la platea dei beneficiari – ovvero quali requisiti di accesso si devono rispettare – le prestazioni erogate dallo Stato in ambito di welfare state possono essere distinte in base a tre categorie:

  1. Trasferimento universale “puro”: per accedere alla prestazione conta unicamente l’essere stati esposti a un determinato rischio/evento (ad es. la malattia, la disoccupazione, la vecchiaia). Tutte le persone colpite da tale rischio ricevono il trasferimento (ad esempio, l’assistenza sanitaria in Italia o il sistema pensionistico nei paesi in cui viene erogata una “pensione di base” a tutti gli over-65). Al limite, come contingenza si può considerare il semplice “essere nati” o “essere residenti” e si concreta un trasferimento dato a tutti i cittadini, indipendentemente da ogni altra condizione (il cosiddetto reddito di base o di cittadinanza).
  2. Trasferimento da assicurazione sociale: oltre al verificarsi dell’evento, può ricevere il trasferimento solo chi rispetta uno specifico “record contributivo” (ad es., aver versato contributi per almeno 20 anni, o aver risieduto nel paese, pagando imposte, per almeno 10 anni): in Italia le pensioni sono, ad esempio, pagate a chi ha versato almeno 20 anni di contributi previdenziali, l’indennità di disoccupazione NASPI è pagata ai disoccupati che hanno lavorato almeno 13 settimane nei 4 anni precedenti al licenziamento e 30 giorni nell’ultimo anno.
  3.  Trasferimento selettivo (o assistenziale, means-tested): al di là o meno della contingenza relativa all’evento sfavorevole (che può anche non essere richiesta se come unica condizione si guarda al reddito degli individui), il trasferimento è concesso solo a chi ha un reddito o patrimonio (individuale o familiare) inferiore a una certa soglia. Ad esempio, il reddito di cittadinanza in Italia è concesso a chi ha un ISEE non superiore a 9.360 euro l’anno e un reddito equivalente non superiore a 6.000 euro e rispetta ulteriori requisiti relativi al patrimonio mobiliare e immobiliare. Oltre alla prova dei mezzi, i trasferimenti means tested possono essere concessi solo a chi rientra in determinate condizioni di “rischio”; ad esempio, in Italia, l’assegno sociale viene erogato agli anziani, mentre fino a qualche anno fa i disoccupati di lunga durata potevano avere un’estensione del sussidio di disoccupazione (ASDI) se avevano un reddito familiare inferiore a una certa soglia.

Semplificando, una distinzione spesso suggerita è quella fra trasferimenti universali e selettivi. Non vi è tuttavia pieno consenso sugli elementi da prendere in considerazione per definire universale uno schema di welfare. Alcuni ritengono tale unicamente un trasferimento concesso a tutti gli individui in base alla sola cittadinanza ed indipendentemente da qualunque altra condizione di accesso. I limiti di una simile concezione emergono se si porta agli estremi la logica su cui essa si basa: le assicurazioni sociali, anche se non si richiede un record contributivo, sarebbero sempre selettive, dato che il trasferimento è condizionato al verificarsi degli eventi che le definiscono, quali la vecchiaia o l’invalidità. Altri, al contrario, definiscono l’universalità come il contrario della selettività, ovvero tutti quei casi in cui, indipendentemente da eventuali altri requisiti, per quanto stringenti, non è richiesto il means test per accedere alla prestazione.

Similmente, la selettività può essere intesa come una qualsiasi restrizione delle condizioni di eleggibilità (ad esempio l’età, lo status occupazionale o, in termini più vincolanti, un requisito contributivo minimo per avere diritto a una pensione, o criteri diagnostici per ricevere assegni di malattia o invalidità, o comportamentali – ricerca attiva di un lavoro – per accedere al sussidio di disoccupazione) o, in modo più preciso, come descritto in questa voce, un criterio in base al quale l’accesso alle prestazioni è condizionato ad una situazione economica di bisogno, provata attraverso il ricorso ad un means test.

In Italia si fa spesso uso dell’ossimoro “universalismo selettivo”, che indica un trasferimento concesso a tutti i poveri, indipendentemente da ogni altra loro caratteristica (ad es., l’età, la condizione lavorativa, la presenza di disabili nel nucleo). In questo senso, a parte i requisiti di residenza particolarmente stringenti per i cittadini extracomunitari, il reddito di cittadinanza rispetta il criterio dell’universalismo selettivo (è concesso a tutti i poveri, indipendentemente dall’appartenenza a specifiche categorie di individui), mentre non lo è l’assegno sociale, che è una prestazione means tested riservata ai soli individui di almeno 67 anni d’età.

Nei requisiti di accesso ad alcuni strumenti di welfare (in primis sussidi di disoccupazione e redditi minimi anti-povertà), per evitare disincentivi all’offerta di lavoro sempre più spesso si includono anche le cosiddette prove di “condizionalità”, ovvero si richiede ai beneficiari di mettere in atto una serie di comportamenti che provino la loro intenzione di tornare attivi e non vivere di soli sussidi (ad es., fare attività di ricerca attiva di lavoro, seguire corsi di aggiornamento professionale, non rifiutare l’offerta di lavori congrui alle proprie competenze).

Soprattutto nei modelli di welfare del Centro e Sud Europa, spesso i vari trasferimenti di welfare differiscono anche in base alla categoria a cui appartengono i lavoratori (ad esempio, autonomi, dipendenti pubblici e privati beneficiano di schemi e regole differenziati); in questo caso bisogna valutare il grado di “categorialità” degli schemi di welfare (ad esempio, il sistema pensionistico francese si basa su 42 diversi regimi a seconda delle diverse categorie di lavoratori, mentre in quello tedesco tutele molto limitate sono offerte a lavoratori autonomi ed atipici).

Bisogna infine sottolineare che i requisiti di accesso alle prestazioni di welfare non necessariamente sono collegati con la regola di calcolo dei trasferimenti monetari di welfare. Questa può essere infatti di vario tipo – di importo uguale per tutti, commisurata ai contributi versati, a quanto a lungo si è versato, al salario che si aveva prima dell’evento avverso – indipendentemente dai requisiti che si usano per stabilire l’accesso. Il grado di redistribuzione “verticale” di un sistema di welfare (quanto si redistribuisce a favore dei meno abbienti) dipende, quindi, dall’interazione fra requisiti di accesso, regole di finanziamento e formule di calcolo della prestazione.

 

Pregi e difetti di universalismo e selettività

La letteratura ha messo in luce diversi pregi e difetti dei due tipi di trasferimento.

L’universalismo, sia se basato sul mero diritto di cittadinanza, sia se sviluppato attraverso forme di assicurazione sociali con requisiti di accesso più o meno stringenti, è apprezzato da molti studiosi soprattutto per la sua capacità di evitare che l’accesso ai trasferimenti del welfare si trasformi in una causa di segmentazione della popolazione; dunque, viene sottolineata l’idoneità di questo modello a promuovere la coesione sociale. Ciò evita gli “effetti stigma” che potrebbero ricadere su chi riceve misure selettive. Inoltre, non differenziare nell’accesso ai servizi le categorie di individui a seconda dello status socio-economico potrebbe accrescere il sostegno dei cittadini alle politiche redistributive. In aggiunta, confrontati con quelli selettivi, gli schemi universali sono caratterizzati da una complessità amministrativa e di gestione nettamente inferiore (in particolare, non c’è bisogno di definire complesse norme di accesso e di monitorare continuamente chi le rispetta), limitando quindi l’insorgere di queste tipologie di costi.

D’altro canto, coloro che privilegiano la selettività spesso lo fanno sulla base della convinzione che, soprattutto in presenza di stringenti vincoli di bilancio pubblico, sia indispensabile indirizzare le risorse unicamente ai più bisognosi per accrescere l’efficacia delle politiche redistributive e la loro capacità di combattere la povertà. In questo caso, l’elemento più apprezzato sembra essere la maggiore efficacia redistributiva verso la “coda estrema” della distribuzione, a parità di risorse o anche con un loro risparmio. Seguendo quest’ultima impostazione si tratta di selezionare i destinatari dei provvedimenti sulla base del loro comprovato stato di necessità, in modo da minimizzare, per ogni dato obiettivo distributivo, la spesa pubblica. Si realizzerebbe così la cosiddetta “target efficiency”, consistente nel destinare le risorse pubbliche principalmente, o esclusivamente, al gruppo che si intende tutelare attraverso la politica sociale (i poveri) senza sprechi che avvantaggino chi non ne ha bisogno.

I sistemi universali sono pertanto criticati in ragione della minore presunta target efficiency rispetto a quelli selettivi. Infatti le risorse sono trasferite anche a chi non abbia necessità impellenti e ciò finirebbe per accrescere la complessiva spesa pubblica. In aggiunta, molti sottolineano le distorsioni nei comportamenti, con conseguenze negative per l’efficienza, che sarebbero indotte dalle elevate aliquote di imposizione necessarie per finanziare un sistema di welfare universale: il riferimento principale è alle decisioni riguardanti l’offerta di lavoro e la formazione del risparmio.

Ai supposti vantaggi degli schemi selettivi in termini di target efficiency, si contrappongono però numerosi altri limiti.

In primo luogo la selettività, selezionando l’accesso in base a un determinato criterio fondato su reddito/patrimonio, è inevitabilmente soggetta a due tipi di errori: la mancata concessione del trasferimento a chi ne avrebbe diritto o, all’opposto, la concessione del trasferimento a chi non ne avrebbe diritto. Tali errori possono dipendere sia da regole amministrative che rendono complessa l’identificazione dei beneficiari (e aprono spazio ad abusi e comportamenti arbitrari da parte delle autorità che gestiscono lo schema), sia da comportamenti opportunistici degli individui che cercano di ingannare l’operatore pubblico per accedere al beneficio (mediante una sotto-dichiarazione del reddito). D’altro canto, la necessità di monitorare attentamente le certificazioni individuali accresce notevolmente i costi amministrativi, attenuando il vantaggio della selettività in termini di minor spesa complessiva.

Gli schemi selettivi, inoltre, possono avere effetti perversi sugli incentivi se il tentativo di beneficiare di questi schemi incide sui comportamenti dei singoli individui. L’effetto congiunto dell’erogazione di trasferimenti fino a una determinata soglia di reddito e del pagamento delle imposte una volta superata tale soglia può generare aliquote marginali effettive elevatissime che rendono conveniente non accrescere il reddito guadagnato sul mercato. Per denotare situazioni di questo tipo si usa l’espressione “trappola della povertà” (o della “disoccupazione”).

Al di là dei limiti di tipo amministrativo, i problemi di inefficiente copertura degli individui in condizioni di bisogno da parte degli schemi selettivi possono essere aggravati da un fenomeno che appare essere, nell’effettiva esperienza, piuttosto consistente, ovvero il basso assorbimento – o take up – dei trasferimenti selettivi. Per effetto di tale fenomeno la quota di beneficiari effettivi è significativamente inferiore (in alcuni paesi in una misura dell’ordine del 20-30%) rispetto agli aventi diritto potenziali. Le motivazioni di un basso grado di take up sono molteplici: la mancanza di informazioni adeguate sui benefici ai quali si ha diritto, la presenza di costi di transazione (costi, anche solo in termini di tempo, per presentare le domande o accedere al servizio), il ruolo degli effetti stigma che possono indurre gli individui a non richiedere trasferimenti means tested per non essere identificati come poveri.

D’altro canto, la stessa idea di maggior target efficiency associata alla selettività va posta in discussione laddove si passi ad analizzare il tipo di equilibrio politico che verrebbe indotto dall’accesso più o meno universale agli schemi di protezione sociale. Negli schemi selettivi ogni unità di reddito trasferito, essendo destinata unicamente ai più bisognosi, avrebbe una maggiore capacità di conseguire gli obiettivi distributivi. Questa tesi richiede, tuttavia, di ipotizzare che il totale di risorse disponibili a scopi redistributivi sia sostanzialmente fisso e si suddivida fra un diverso numero di beneficiari a seconda che gli schemi siano universali o selettivi.

In realtà, come mostrato da Korpi e Palme (1998), le risorse complessivamente disponibili potrebbero variare con il passaggio da un sistema universalistico ad uno selettivo. In democrazia è lecito assumere che l’ammontare di risorse disponibili per le politiche sociali dipenda dalle preferenze della maggioranza, la cui composizione può essere alterata significativamente dalla struttura dello stato sociale. In particolare non è privo di rilievo che le politiche sociali – servizi e assicurazioni sociali a carattere universale – riguardino anche le classi medie ed alte, o siano, invece, mirate unicamente ai più poveri; nel primo caso potrebbe infatti costituirsi un’ampia maggioranza a favore dei trasferimenti del welfare, mentre nel secondo la più ristretta base dei beneficiari delle prestazioni potrebbe ridurre il grado di consenso e generare, quindi, stanziamenti di bilancio molto più contenuti di quelli attivabili con schemi universali. L’efficacia redistributiva delle politiche sociali dipende, quindi, sia dalla quota delle risorse stanziate destinate a favore dei più bisognosi, sia dall’entità complessiva del bilancio. In base ai meccanismi di formazione politica del consenso ci può essere un trade off fra le due dimensioni, cosicché il vantaggio sul piano redistributivo del sistema selettivo non appare del tutto scontato quando la riduzione dell’entità complessiva dei trasferimenti selettivi diviene molto elevata.

Va inoltre sottolineato che, come rilevato, l’universalismo non implica in nessun modo che l’ammontare delle prestazioni sia uguale per tutti i beneficiari e non si generino, dunque, effetti redistributivi. L’intensità e la direzione dei flussi redistributivi in uno schema universale dipende, infatti, da come sono disegnati i meccanismi di finanziamento e di calcolo delle prestazioni e nulla osta nel disegnare schemi universali o assicurazioni sociali con effetti fortemente progressivi (ad esempio, sistemi pensionistici con importi delle prestazioni che avvantaggiano relativamente chi ha avuto carriere meno favorevoli, o sussidi di disoccupazioni con tetti sull’importo erogato e/o finanziati anche dai lavoratori abbienti che, per le loro caratteristiche, è molto raro che siano beneficiari dei sussidi nel corso della loro vita).

 

Suggerimenti di lettura

  • Barr N. (2020), The Economics of the Welfare State, Oxford, Oxford University Press.
  • Esping-Andersen G. (1990), The Three Worlds of Welfare Capitalism, Cambridge, Polity Press.
  • Gilbert N. (a cura di) (2000), Targeting Social Benefits: International Perspectives & Trends, New Brunswick, Transaction Publisher.
  • Granaglia E., M. Bolzoni (2016), Il reddito di base, Roma, Ediesse.
  • Kenworthy L. (2011), Progress for the Poor, Oxford, Oxford University Press.
  • Korpi W., J. Palme (1998), “The Paradox of Redistribution and Strategies of Equality: Welfare State Institutions, Inequality, and Poverty in the Western Countries”, American Sociological Review, 63(5), 661-87.
  • Raitano M. (2007), “Welfare state e redistribuzione: il ruolo di universalismo e selettività”, Meridiana, n. 59-60.
Michele Raitano
Michele Raitano è Professore Associato di Politica Economica nel Dipartimento di Economia e Diritto della Sapienza, Università di Roma e membro della Redazione del “Menabò di Etica e Economia. Ha recentemente pubblicato, con Maurizio Franzini e Elena Granaglia, "Dobbiamo preoccuparci dei ricchi? Le disuguaglianze estreme nel capitalismo contemporaneo", Il Mulino, 2014.

Progetto realizzato da

Fondazione Ermanno Gorrieri per gli studi sociali

Con il contributo di

Fondazione Cassa di Risparmio di Modena